La deriva ideologica dell’attuale governo

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E’ chiaro che questo Governo, formato da troppi (non tutti però, per carità) professionisti della politica di basso cabotaggio e di persone che da nullafacenti si sono trovati all’improvviso catapultati sulla scena nazionale con lauti stipendi, sia cieco e sordo rispetto ai diritti di chi da sempre fa.
Mi riferisco alle partite iva vere, le quali per definizione guadagnano, in  media, qualcosa di più dei dipendenti (almeno a Milano dove vivo), anche perché altrimenti non avrebbero fatto tale scelta: quella cioè, di chi ha deciso di mettersi sul mercato, di far valere la propria professionalità, e di rischiare di avere poco lavoro, e pochi guadagni, nei tempi bui.
Ecco perché le partite iva (oneste) vanno aiutate.
Infatti, la partita iva un anno guadagna bene, ma quello dopo? Immagino che ci siano degli studi di settore: in realtà, e questo è vero soprattutto per l’economia italiana, la situazione generale delle partite iva è soggetta a cambiamenti improvvisi, soprattutto in certi ambiti, soprattutto quando siano quelli considerati marginali per le attività dell’azienda.
Porto il mio caso: dopo un buon liceo classico e una laurea in filosofia con lode, un corso semestrale post laurea con test finale, e alcune pubblicazioni, comprese quelle su note riviste letterarie e filosofiche, mi sono trovato a svolgere vari lavori, tra cui, ultimo, quello di addetto stampa e specialista di comunicazione aziendale, in primis per una casa editrice. Ma, ahimé, le case editrici chiudono, e ho dovuto alla fine rivolgermi alle aziende solo commerciali. Con qualche risultato economico, ma senza mai esagerare, senza mai strafare, dato che il mio motto – immagino condiviso da molti – è “lavorare per vivere”, e non il contrario. Dopotutto sono un letterato, non un manager, o un “tecnico”, altrimenti avrei studiato ingegneria, materia per la quale mi sono sempre sentito portato (nonostante i buoni risultati in latino e greco, infatti, presentai fisica alla maturità classica).
Con tutto ciò, vorrei precisare che, cresciuto a Genova dove mi sono laureato, sono emigrato nel 1999 a Milano, dove mi sono appoggiato per una settimana ad un parente: dopodiché mi sono ritrovato da solo. Single impenitente, non ho mai avuto il supporto non solo della famiglia, ma neppure di un partner, cosa che va bene sino a quando sei giovane, ma inizia a pesare dopo una certa età. Soprattutto per la questione della malattia, a cui io non penso mai non a  caso, come per una sorta di difesa psicologica.
Arrivato a Milano, a dispetto della mia laurea con lode, ho fatto prima il cameriere, poi il portinaio in un palazzaccio della periferia di Milano, in via Novara. Ho iniziato a insegnare dopo un anno e mezzo. Mi sono adeguato, insomma, non ho mai chiesto nulla a nessuno, solo di essere valutato per le mie qualità.
Ho fatto anche il volontario per un anno tra ragazzi italiani e stranieri problematici, e nel 2005 ho accettato di spostarmi in Africa, dove ho lavorato in luoghi lontani ottomila chilometri da casa.
Ora, ripeto, mi trovo a fare l’addetto stampa per una serie di aziende italiane e straniere.
Nulla per cui scialare, come si dice, anche perché a causa del lavoro che svolgo devo vivere in centro a Milano, in una casa dignitosa dove accogliere i giornalisti e i clienti. Una casa in affitto, sia chiaro, che mi costa, tra tutto, 1400 euro al mese: è da un po’, infatti, che provo a mettere dei soldi da parte per comprarmela, questa benedetta casa (ma certo non a Milano, e tantomeno in centro città – tra parentesi: restando nel capoluogo lombardo metto a rischio la mia salute a causa del forte inquinamento, ma non posso comportarmi diversamente, in un’altra città farei fatica a lavorare considerata la mia professione, poco gettonata nel resto d’Italia -).
Una battaglia continua, insomma, la mia, per cui l’idea del passato governo di creare una doppia flat tax, una per i redditi sino a 65.000 euro (al 15%), e una sino a 100.000 (al 20%) mi è subito parsa giusta. Mi è subito sembrato che la politica, per una volta, comprendesse le difficoltà della gente che lavora senza sicurezze, e che si è “sbattuta” una vita per ottenere qualche risultato. Perché il punto è questo: non è che chi guadagna di più ci riesce perché è più fortunato. Tra i liberi professionisti, di solito prende di più chi è più bravo (o chi “sgobba” di più, come nel mio caso).
So perfettamente che l’attuale sistema neoliberista globale è fallito (sì, fallito!), e che in tale sistema la meritocrazia è spesso una scusa per giustificare una situazione in cui qualcuno deve stare sopra, e qualcuno sotto (sia che si tratti di Stati o di popoli, sia che si tratti di individui). Sono d’accordissimo che questo sia un gravissimo errore, che vada combattuto a tutti i livelli. Ritengo però anche un errore, nello stato attuale delle cose, decidere d’ufficio chi sia da premiare e chi da punire pesantemente sulla base solo del reddito, senza tenere conto di altri fattori (ragioni del reddito, età, rete familiare alle spalle, stato di salute, e così via), e penso, inoltre, che quando le differenze di reddito tra le partite iva sono relative, e solo relative, ebbene, lo devono essere anche le aliquote per le tasse, con percentuali che devono cambiare per punti minimi come succede in Germania, e non per salti come in Italia.
Ora, dire che sino a 65.000 euro uno deve pagare il 15% di tasse, mentre gli altri devono seguire le aliquote marginali irpef, mettendo assieme chi guadagna, ad esempio, 75.001 euro trattandolo da ricco (e trattando chi guadagna 65.000 euro da povero) e chi guadagna, che so, 750.000 euro, o 7 milioni e mezzo, non è fare una riflessione che stemperi le spigolosità del neoliberismo: significa fare solo una scelta sciocca, fondata su presupposti ideologici – su una furia ideologica direi – solo orientati al proprio elettorato. A Milano 75.001 euro sono il minimo sindacale per vivere dignitosamente, considerati i costi che si devono affrontare e che sono ben lontani dal poter essere in gran parte dedotti come si crede, dato che la vita di una persona non si ferma certo a quella professionale, soprattutto nel capoluogo lombardo.
Forse bisognerebbe puntare su di un regime fiscale calibrato sul reale costo della vita delle varie zone del paese, altrimenti uno che lavora a Milano come me farà sempre fatica a mettere i soldi da parte per comprare casa, col risultato di dover pagare salatissimi affitti per abitazioni di modeste dimensioni, e di sprecare, quindi, risorse preziose.
Probabilmente chi in questi giorni sta fissando tali aliquote per le partite iva sta pensando alla gente “povera” (sulla carta: poi c’è la questione del “nero”, naturalmente, come i tanti recentissimi casi di farabutti detentori a torto del reddito di cittadinanza mostrano ampiamente), non alla povera gente, ossia quella che, come me, lo diventerebbe se si passasse da una tassa del 20% stabilita inizialmente dal passato governo, ad un importo che, dai 75.000 euro in su, vale più del doppio. Infatti, ipotizzando di poter rientrare nell’aliquota del 20% di cui avevano parlato sia Salvini che Di Maio, aliquota da applicare a partire dal primo gennaio 2020 su tutto il guadagnato, non ho fatto nulla per aumentare il numero dei clienti, soddisfatto di poter lavorare il giusto al giusto costo sociale. Ora invece scopro che probabilmente mi toccherà un'”imposta dovuta” non da poco, e un’aliquota del 43% per una parte dei miei introiti, nonostante non abbia incassato molto di più di chi è rimasto sotto i 65.001 euro, col risultato di vedere le mie tasse aumentate in maniera drastica da un anno all’altro senza che io abbia (almeno) provato ad ingrossare la quantità di denaro su cui farle applicare, mettendo, per così dire, le mani avanti.
Si parla di certezza della pena, di certezza del diritto: a quando la certezza del fisco? La certezza, cioè, di sapere quante tasse pagare l’anno dopo. Non di doverle pagare, sia chiaro, che quello lo do per scontato: no, la certezza, ripeto, di sapere quante pagarne. E’ una richiesta eccessiva, questa?
Ai politici seri l’ardua sentenza. Intanto godiamoci il triste spettacolo della furia ideologica dell’attuale governo di sinistra un po’ troppo populista, che, pur essendo io uomo a mia volta di sinistra su molte cose, non otterrà, temo, il mio voto alle prossime elezioni.

2 risposte a "La deriva ideologica dell’attuale governo"

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  1. Ragionamento che è estremamente condivisibile e logico, un bel modo di vedere la questione politica attuale senza stereotipi ma vivendola in prima persona.
    Io spesso mi domando, ma dove sono tutti? Più in generale, che lavoro faranno gli altri? Complimenti

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    1. Salve, solo ora mi sono deciso a rispondere ai lettori, cosa che peraltro potrò fare solo in alcune ore della giornata.
      Grazie per il buon riscontro

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