
Davvero vogliamo difendere le statue dei signori razzisti e schiavisti del mondo occidentale?
Il sistema sudista americano, ad esempio, è stato ritenuto peggiore di quello nordista. Poi è tornato a galla con l’apartheid, è vero, ma il tentativo di esautorarlo nel frattempo era stato compiuto. E il fatto che sia tornato a galla dimostra semmai la sua pericolosità nel tempo, e quindi le ragioni per continuare a condannarlo, per condannarlo anzi ancora di più.
E quindi mi stupisco del contrario, non che ci si accanisca su delle statue oggi, ma piuttosto che sia stato accettato per decenni di lasciarle dove stavano. Non costituivano infatti l’emblema di qualcosa che non era di fatto ancora morto, tutt’altro? Ma forse è proprio questo il motivo per cui non sono state tolte, perché il sistema innanzitutto mentale del razzismo e della discriminazione che non è mai morto nei fatti è stato in grado di impedirlo? Una sorta di concessione della parte bianca vincente – e ipocrita, dicevo: e questo esempio, io credo, lo dimostra ampiamente – a quella, sempre bianca, perdente?
Una faccenda tra cosiddetti bianchi insomma, sempre cioè tra i bianchi dominanti, pensata per rimanere sopra le teste dei cosiddetti neri?
Certo, uno schiavista potrebbe aver dedicata un statua perché è stato un combattente contro gli inglesi oppressori, o uno scienziato. Ma questo dovrebbe far dimenticare il fatto che sia stato un sudista schiavista? Che abbia combattuto contro gli inglesi lo si può scrivere sui libri di storia; che abbia creato un’opera intellettuale sarà testimoniato dall’opera stessa, il vero monumento alla sua intelligenza. Ma con la statua si nobilita un uomo – come dire? – nella sua interezza. Senza fare distinzioni tra pro e contro. E questo non è ammissibile per uno che comunque era uno schiavista, o no? Del resto, per lo stesso motivo mi chiedo se abbia un senso erigere statue per dei singoli uomini, un sorta di culto della persona che sembra non fare i conti non solo con i chiari scuri della natura umana, ma della storia. Forse le statue -mi scuso in anticipo per la provocazione – dovrebbero essere pensate provvisorie, se proprio occorre crearle per le necessità da manuale di psicoanalisi dei contemporanei o dei posteri, in modo da essere collocate su un piedistallo, sì, ma solo appoggiate, per essere facilmente rimosse appena venga considerato necessario, appena sia cambiato lo spirito dei tempi e il giudizio sulle persone rappresentate.
Infatti il giudizio degli uomini può cambiare nel tempo, mentre la statua intende esprimere un senso di immutabilità che non è nella natura delle cose, anche se a molti (tutti?) piacerebbe. Se le “statue rimovibili” esistessero già da tempo non ci sarebbero stati tumulti violenti come quelli attuali contro di esse, e non saremmo qui oggi a condannare la violenza di gesti del genere. Potremmo invece provare a concentrarci sulla vera questione, su cosa ci sia di giusto o sbagliato nelle rivendicazioni di chi non vuole sul piedistallo uomini collusi con lo schiavismo tanti anni prima – compreso Colombo, che schiavista fu -.
Non è vero infatti – dicono alcuni – che li si condanna con la sensibilità di noi moderni?
Se questo fosse vero, significherebbe comunque che il signore messo su una statua ne tradisce la natura (della statua): la statua infatti non vuole significare qualcosa di immutabile, di permanente? E come fa ad essere tale il giudizio su una persona? Con quale arroganza chi eresse la statua si arrogò il diritto di giudicare quell’uomo anche per i posteri? Perché questo una statua fa, cristallizza il giudizio di un’epoca su una persona senza porsi problemi anche di tipo storico, prima ancora che morale; senza porsi il problema che la mentalità, per l’appunto, cambia con le epoche.
Chi fa una statua maltratta la storia e il processo di cambiamento nel tempo che la riguarda sia dal punto di vista dei fatti raccolti che della loro interpretazione almeno quanto chi la vuole distruggere.
E questo riguarda la statua di qualsiasi personaggio storico, anche i più apparentemente limpidi.
Possiamo ancora portare argomenti a favore della “buona fede” del generale Lee e così via, ma il punto in realtà è un altro, il che vuol dire che è poi sempre lo stesso, quello principale, quello su cui ruota tutto il mio articolo: accettiamo pure tutte le attenuanti sul caso personale di Lee, ma nessuna mi convincerà che il noto generale meriti una statua per quanto ha fatto. Nessuno che sia stato portatore di idee o comportamenti oggi condannabili lo è. Questo significa allora aprire le porte al rischio che prima o poi nessun essere umano si rivelerà degno di una statua? Ma non è esattamente questa la conclusione a cui dovremmo arrivare? Certamente è la conclusione a cui voglio arrivare io col mio articolo.
Ed io allora mi chiedo: perché le statue di Hitler o di Francisco Franco non possono rimanere e quelle dei razzisti e degli schiavisti di tanto tempo fa sì?
Forse il motivo è questo: perché il razzismo sudista o bianco ha continuato a imperversare in molte parti d’America (e dell’Impero britannico) anche dopo l’abolizione della schiavitù col sistema dell’apartheid e delle discriminazioni mentre quello di Hitler no. Il sistema di Hitler è terminato con la sua morte e, soprattutto, con il crollo della Germania nazista. Il razzismo della Confederazione sudista non è finito con la sua sconfitta per mano degli stati dell’Unione nordista.
Ma non è allora questa una ragione in più per fare davvero i conti con la storia e la società americana, e per dire che statue del genere non hanno senso esattamente come non l’hanno avuto il razzismo e l’apartheid perpetrato a lungo dopo l’abolizione della schiavitù rivelando un problema strutturale e ancora almeno in parte attuale della società americana? Perché il razzismo sudista dovrebbe essere tollerato più di quello nazista? Se non ha usato i forni crematori, infatti, è stato capace di incunearsi nella mente della gente, dei bianchi – ma anche dei neri – in maniera più profonda, tenace, odiosa; soprattutto contro una certa “razza”, quella nera appunto.
Ma prima di continuare, permettetemi di fare una correzione: gli statunitensi, soprattutto sudisti, hanno avuto anche loro dei forni crematori sui generis, pensati per eliminare una parte degli africani destinati ad entrarci in nome della “selezione naturale”; cos’erano infatti le navi negriere? Quanti neri, uomini e donne, sono morti stipati come animali in quelle miserabili navi della morte? Del resto tale selezione veniva fatta anche dai nazisti dei lager, tenendo fuori dai forni gli individui sani e forti che potevano servire. Almeno per un po’, come per un po’ potevano sopravvivere gli africani – torniamo a loro – che avevano superato il viaggio in mare, prima di morire per sfinimento sui campi di cotone o uccisi dai bianchi con le accuse più risibili: una parola mal detta, uno sguardo ad una donna bianca, etc.
Perché il capolavoro del razzismo americano fu questo: non solo spingere i neri a uniformarsi ai comportamenti che i bianchi si aspettavano da loro, per disprezzarli, per convincersi di avere ragione a tenerli sotto il tacco (i bianchi di fatto incoraggiavano i cattivi comportamenti tra i neri: alcolismo, certo, ma anche il furto ad esempio); no, il capolavoro del razzismo americano fu innanzitutto quello di spingere i neri stessi, i neri cioè svuotati da secoli di prevaricazione psicologica prima ancora che fisica, a guardarsi allo specchio e chiedersi loro per primi se i bianchi razzisti, sempre così bravi, intelligenti ed efficaci, non avessero qualche ragione a disprezzarli; peccato che se ciò succedeva era proprio a causa dei bianchi, che avevano bisogno di creare dei soggetti insicuri, facili da controllare e dominati da un profondo complesso di inferiorità. Un’inferiorità dovuta all’ambiente di sviluppo, non certo alla genetica: un ambiente che i bianchi avevano curato in tutti i particolari, ossia misero da un punto di vista materiale e poverissimo di stimoli intellettuali.
E’ quello che io chiamo il “wrightismo psicologico”, dal grande scrittore Richard Wright autore di “Ragazzo negro”. Il giovane del celebre romanzo infatti è “straniero” sia rispetto ai bianchi sia rispetto ai neri che vogliono, di fatto, renderlo servo dei bianchi facendogli accettare quello che Wright definisce il “sistema sudista di vita”; come degli zombie che vogliono morderlo per farlo diventare zombie come loro.
Se il contesto è questo allora la storia, difesa da certi Soloni nostrani, non potrà avere nulla da eccepire contro la caduta di qualche statua (qualche testa senza sangue, insomma).
Anche perché, si sa, la storia è una interpretazione, quando non un’invenzione, dell’uomo; di solito, però, dell’uomo che vince, non di quello che perde. E sinora a vincere è stato sempre e soltanto l’uomo bianco, per lo meno negli Stati Uniti d’America.
Pensiamo ai libri di storia scritti non a caso dai bianchi (o dalle vittime, gli zombie, del loro sistema di dominio psicologico) quando parlano della “scoperta” dell’America, ad esempio. Il razzismo si nutre di frasi del genere. L’America non è stata scoperta da nessuno, era già abitata da uomini quando arrivarono gli europei. Ed è lo stesso motivo per cui l’Europa è definito il “vecchio” continente, no? Gli altri continenti, come le Americhe o l’Oceania, sono “nati” quando sono stati “visti” e occupati dagli europei. Il linguaggio, spesso, esprime il razzismo degli occidentali in una maniera strisciante e profonda… Tutti noi lo sappiamo, ma non ci pensiamo mai abbastanza – questo è il punto -, e ci comportiamo un po’ come il filosofo e vescovo irlandese Berkeley, per il quale le cose esistono solo se a guardarle c’è il soggetto giusto: lui lo sosteneva per difendere l’esistenza di Dio in chiave anti materialista – lo sguardo senza il quale non ci sarebbero le cose, infatti, è il Suo -, noi, evidentemente, per sostenere l’esistenza dell’uomo-dio. Infatti solo quando l’America venne vista dal bianco incominciò ad esistere davvero. E’ un fenomeno, questo, che io chiamo “berkelismo razziale”. E’ l’uomo bianco che fa esistere le terre del pianeta. E l’uomo-dio bianco era colui a cui doveva rivolgere la propria sottomissione psicologica il nero.
Se queste sono alcune delle premesse ineludibili sul discorso circa l’attuale iconoclastia dilagante la conclusione inevitabile forse è la seguente: meglio che a fare le spese del risentimento popolare antirazzista sia qualche statua e non qualche individuo in carne ed ossa, nella speranza che i poliziotti americani seguano l’esempio dei manifestanti, se proprio devono sfogarsi, e lascino perdere gli esseri umani, di qualsiasi colore siano.
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