
E’ giusto abbattere le statue? Davvero si mette in discussione la storia facendolo? Eppure qualche statua nella storia è stata abbattuta, e nessuno ha urlato allo scandalo. Perché certe statue si possono abbattere e certe no? Si tratta di una differenza accettabile oppure nasce dal pregiudizio di chi valuta un comportamento che, anche quando fatto dal popolo in regime democratico, rimane un comportamento violento? E’ la violenza che non viene accettata? E’ il fatto che sia il popolo a farsi promotore di certe iniziative sostituendosi agli intellettuali i quali sono gli unici titolati a intervenire? Ma una violenza del genere passando dai protagonisti della storia a cui le statue sono state dedicate davvero rischia di mettere in crisi la storia stessa? La storia davvero si può abbattere insieme con le statue di alcuni suoi protagonisti?
L’uso di alcuni primi, semplici concetti come “negrismo americano”, “dermocrazia”, “wrightismo psicologico” e “berkelismo razziale” hanno il compito di aiutare ad inquadrare un problema che non a caso sembra non affascinare molti intellettuali bianchi, e anche neri, che nel sistema bianco prosperano. Un impianto psicologico che va combattuto alla radice, ma che bisogna prima saper inquadrare: cosa difficilissima da ottenere amalgamato com’è con la formazione, innanzitutto linguistica e culturale, di ognuno di noi.
E’giusto distruggere o abbattere una statua? Alcuni credono di no perché c’è in gioco la storia. E’ come se abbattendo una statua ci si volesse liberare di una sua parte. La si volesse cancellare, negare. Reinterpretare con le nostre categorie di contemporanei. Ho capito bene? E’ davvero così? Forse qualsiasi considerazione sull’abbattimento delle statue dovrebbe partire da una riflessione sulla natura della storia, dell’uomo e delle statue stesse.
Partirei da quest’ultime, mi sembra la cosa più facile.
Perché si costruiscono le statue? Per commemorare una persona. Non solo per questo, ma soprattutto per questo. Riteniamo che una certa persona meriti stima duratura. Oppure lo ritiene la persona stessa, se è un dittatore. Perché spesso le statue se le costruiscono i dittatori, come sappiamo. Sono certo che ce ne saranno parecchie nella Corea del nord. Ce n’erano anche nell’Italia di Mussolini, e così via. Queste statue sono le prime a sparire, quando chi rappresentano ha perso il potere e la sua è stata una dittatura nociva. Ma ci sono state dittature non nocive? E la dittatura non è nociva per definizione quando sia seguita da una democrazia? E questo non è vero anche se tale dittatura sia stata sostenuta da tanti, mi verrebbe da dire dai più ma in una dittatura il punto è capire quanti davvero la sostengano mancando nella dittatura, di solito, diritto di voto e di parola; ed è questo il male originale che non si può perdonare. Non ci sono più statue di Mussolini, ma neppure di Francisco Franco in Spagna, io credo. E neppure di Lenin. E questo nonostante esistano di certo seguaci di questi signori ancora oggi. In una democrazia però la loro voce non può superare quella di chi la democrazia difende. Ma una democrazia che impedisce ad alcuni di erigere delle statue ai loro beniamini politici, che oggi sembrerebbero inoffensivi dato che sono morti, è vera, solida? O si potrebbe invece definire una democrazia che esercita la sua dittatura su certe idee ormai inoffensive, e comunque poco pericolose? Ma tali signori ormai morti degni di statue sono davvero inoffensivi? Il fatto che abbiano ancora dei seguaci sembrerebbe suggerire il contrario, ed è questo il punto vero che la democrazia intende tener fermo? Che questi seguaci non possono usare tali statue come simboli di qualcosa che può sempre tornare?
Prendiamo il caso delle statue dei signori razzisti e schiavisti, chiamiamoli così, del sistema sudista americano. Perché difenderne la presenza? Perché difendere il loro nome associato a basi militari, musei, o biblioteche pubbliche? Le loro idee erano sbagliate, gravemente sbagliate, e sono state combattute – anche per ipocrisia, per carità – da un’altra parte che ha vinto, la parte nordista del paese. Esattamente come le idee di Hitler sono state combattute da altri ipocriti, sì, gli inglesi e gli americani dell’impero e dell’apartheid, ma alla fine sono state vinte perché ritenute ancora più pericolose, e poco utili allo status quo planetario. Il sistema sudista era stato ritenuto peggiore di quello nordista, e di sicuro poco utile per gran parte del paese (per gran parte del mondo, quello anglosassone in primis, nel caso di Hitler), e alla fine ha perso. Poi è tornato a galla con l’apartheid, è vero, ma il tentativo di esautorarlo nel frattempo era stato compiuto. E il fatto che sia tornato a galla dimostra semmai la propria pericolosità nel tempo, e quindi le ragioni per continuare a condannarlo, per condannarlo anzi ancora di più. E quindi mi stupisco del contrario, non che ci si accanisca su delle statue oggi, ma piuttosto che sia stato accettato per decenni di lasciarle dove stavano. Non erano infatti l’emblema di qualcosa che non era di fatto ancora morto, tutt’altro? Ma forse è proprio questo il motivo per cui non sono state tolte, perché il sistema innanzitutto mentale del razzismo e della discriminazione che non è mai morto nei fatti è stato in grado di impedirlo? Una sorta di concessione della parte bianca vincente – e ipocrita, dicevo, e questo esempio, io credo, lo dimostra ampiamente – a quella perdente?
Una faccenda tra bianchi insomma, sempre tra i bianchi dominanti, pensata per rimanere sopra le teste dei neri?
Certo, uno schiavista potrebbe avere anche un statua perché è stato un combattente contro gli inglesi, o uno scienziato. Ma questo dovrebbe far dimenticare il fatto che sia stato un sudista schiavista? Che abbia combattuto contro gli inglesi lo si può scrivere sui libri di storia; che abbia creato un’opera intellettuale sarà testimoniato dall’opera stessa, il vero monumento alla sua intelligenza. Ma con la statua si nobilita un uomo – come dire? – nella sua interezza. E questo non è ammissibile per uno che comunque era uno schiavista. Del resto, per lo stesso motivo mi chiedo se abbia un senso erigere statue per dei singoli uomini, un sorta di culto della persona che sembra non fare i conti non solo con i chiari scuri della natura umana, ma della storia. Forse le statue – mi scuso in anticipo per la provocazione – dovrebbero essere fatte in modo da essere pensate provvisorie, se proprio occorre crearle per le necessità “da manuale di psicoanalisi” dei contemporanei sopravvissuti e dei posteri, in modo da essere collocate su un piedistallo, sì, ma solo appoggiate, per essere facilmente rimosse appena venga considerato necessario, appena sia cambiato lo spirito dei tempi.
Infatti il giudizio degli uomini può cambiare nel tempo, la statua vuole esprimere un senso di immutabilità che non è nella natura delle cose, anche se a molti (tutti?) piacerebbe. Se le statue rimovibili esistessero già da tempo non ci sarebbero stati tumulti violenti come quelli attuali contro di esse, e non saremmo qui oggi a condannare la violenza di gesti del genere. Potremmo invece provare a concentrarci sulla vera questione, su cosa ci sia di giusto o sbagliato nelle rivendicazioni di chi non vuole uomini collusi con lo schiavismo tanti anni prima sul piedistallo – compreso Colombo che schiavista fu -. Non è vero infatti – dicono alcuni – che li si condanna con la sensibilità di noi moderni?
Se questo fosse vero, significherebbe comunque che il signore messo su una statua ne tradisce la natura: la statua infatti non vuole significare qualcosa di immutabile? E come fa ad essere tale un giudizio su una persona? Con quale arroganza chi eresse la statua si arrogò il diritto di giudicare quell’uomo anche per i posteri? Perché questo una statua fa, cristallizza il giudizio di un’epoca su una persona senza porsi problemi anche di tipo storico, prima ancora che morale. Chi fa la statua maltratta la storia e il processo di cambiamento nel tempo che la riguarda sia dal punto di vista dei fatti raccolti che della loro interpretazione almeno quanto chi la vuole distruggere. E questo riguarda la statua di qualsiasi personaggio storico, anche i più apparentemente limpidi: figurarsi personaggi come Colombo, Napoleone, Churchill, De Gaulle o Montanelli (davvero si pensa che il noto giornalista fosse figlio di una mentalità diversa dalla nostra quando si prese una tredicenne come concubina?) di cui si sta parlando tanto in questi giorni. Diverso il caso della statua di Marco Polo eretta dai cinesi a Pechino: ecco, forse l’unico modo accettabile per fare statue è vederle realizzate dai popoli con cui i vari personaggi sono venuti in contatto, non dal proprio. Capovolgendo un vecchio detto, molti, troppi sono profeti in casa propria.
E se quei personaggi sono così discussi a livello nazionale e internazionale è perché spesso avevano dietro grandi folle che li sostenevano. Il Governo razzista di Sua Maestà britannica aveva dietro un popolo che in generale non era da meno anche per via dell’indottrinamento utile alle elite al potere. Quindi vox populi non è vox dei: può esserlo ogni tanto, ma spesso non lo è. Di certo il popolo francese si comportò in maniera coerente quando, dopo la rivoluzione, decise di abolire la schiavitù in tutti i territori dell’impero. E stiamo parlando della fine del Settecento, non di pieno Novecento. La lotta contro le ingiustizie c’è sempre stata, sia che abbia coinvolto i bianchi sia che abbia coinvolto i neri. La mentalità dell’epoca non c’entra niente: c’entra invece la capacità di tenere a bada la voce del dissenso dal punto di vista poliziesco, militare, politico e psicologico, questa sì diversa a seconda delle epoche. L’ignoranza in cui sono state tenute le masse per secoli era il miglior strumento per sfruttarle: e una società abituata a fare questo coi bianchi poteva comportarsi diversamente coi neri? Spesso ha usato i bianchi poveri per sfruttare i neri, per farli salire di un gradino sulla scala sociale sino al punto che spesso i peggiori nemici dei neri erano proprio loro, i poveracci bianchi spesso colpevoli di atti di vero sadismo.
Fatto sta che dopo la rivoluzione, e la sua presa di consapevolezza generale, si abolì la schiavitù nell’impero francese. Fu Napoleone a ripristinarla e a vietare l’ingresso dei neri in Francia, per paura che determinassero un imbastardimento della razza. Napoleone non fu coerente con la mentalità del tempo, anzi la contraddì, come contraddisse molti altri assunti rivoluzionari, a partire dal suo ruolo di dittatore. E io credo che un simile discorso vada applicato ai padri della costituzione americana, collegata come si sa a quella francese. Forse le masse che in Francia stanno protestando contro il razzismo dovrebbero puntare al famoso mausoleo del celebre ed esaltato Bonaparte? O è un tabù troppo grande da toccare?
Perché non ammettere invece che l’Europa è stato probabilmente il continente più aggressivo della storia? E che mentre gli europei andavano a fare le loro esplorazione per depredare e uccidere, gli altri, come i cinesi, mostrarono comportamenti diversi? La grandissima spedizione di Zheng He nel 1404 quando la Cina era la prima nazione del mondo avrebbe potuto portare morte e distruzione in giro per il mondo (navi di quasi centocinquanta metri di lunghezza e sessanta di larghezza che potevano contenere sino a mille persone per un totale di circa trenta mila) ed invece ebbe solo lo scopo (finale) di far conoscere meglio il mondo. Quindi non è vero che la mentalità violenta e prevaricatrice dei tempi di Colombo fosse figlia del tempo: era figlia del tempo europeo piuttosto – tema da approfondire, questo -. L’Europa era molto aggressiva, dicevo, ed inferiore ad altre nazioni non solo da un punto di vista scientifico e tecnologico ma pure etico, evidentemente, ed è probabilmente tutto un periodo, quello, a cui bisogna avvicinarsi con grande cautela prima di voler fare statue a chicchessia.
E che dire poi del generale De Gaulle, l’uomo che disse che Napoleone rievocava in lui la parola “grandezza” e definì l’Italia una volta, come ho già scritto, non “un paese povero” ma “un povero paese” (che però fu la patria della stirpe di Napoleone, occorre aggiungere). A chi lo metteva in guardia rispetto ad un mondo sempre più vasto in cui la Francia avrebbe fatto fatica ad imporsi, il generale mostrò la sua fiducia nella nazione in termini incredibili. Secondo lui i francesi avrebbero continuato a dominare su un mondo molto più grande del passato come quattro milioni di australiani comandavano su duecento milioni di conigli di allevamento. Come dire che i non bianchi con cui confrontarsi, o su cui governare, erano come dei conigli, degli animali insomma. Venni a sapere di questa considerazione del “grande generale” dalle parole della signora Le Pen in una trasmissione televisiva italiana. Nessuno degli ospiti presenti fiatò rispetto a una affermazione così straordinariamente, visceralmente razzista; come mai?
Non mi stupisco allora che Macron abbia detto in questi giorni che le statue in Francia non si toccano: primo, per non lasciare nelle mani della le Pen un tale tema sentito come patriottico da molti francesi (bianchi); secondo, perché è appunto sentito così, patriottico. Ma questo patriottismo, questo nazionalismo, non è sempre stato un elemento in più delle elite non solo francesi per governare meglio sulle masse? La Francia in particolare, come il Regno Unito, ha sempre dovuto trovare delle parole d’ordine nazionali per compattare il popolo chiamato alle armi e ottenere determinati obiettivi: colonialismo, schiavismo e razzismo sono stati a lungo tali obiettivi. Di cui rimangono ancora tracce nella società francese, certo, come aria fetida che si continua a respirare nella patria delle balieu: e non solo nella società, ma pure nel suo territorio, nei territori che sono gli avanzi di questo imperialismo fuori dal continente europeo. Oggi le statue, domani la Guyana? Jamais!
Ma proprio un tale esempio dimostra quanto la Francia, il cui neoimperialismo è riscontrabile nella sostanza ancora oggi nei 14 paesi africani che tiene sotto il tacco economico (e in parte militare), abbia bisogno di un grande ripensamento generale: ma la “grandeur” è soprattutto questa cosa qui, e i francesi, e le sue elite in particolare, ne hanno bisogno come l’aria (fetida).
Dopo le statue ed i territori d’oltremare la Francia dovrebbe smettere di sfruttare l’Africa? Il continente cioè che le permette di rimanere ricca al di là dei suoi meriti? Di tenere a bada le tensioni sociali nella madrepatria attingendo mancette per il popolo francese dal tesoro africano? Non erano stati De Gaulle, Giscard d’Estaing e Mitterand a dire che senza l’Africa la Francia sarebbe addirittura crollata (e di recente anche Di Maio, ma noi l’avevamo scritto ben prima)? Il neoimperialismo cela dietro di sé, neppure tanto velato, un profondo e invincibile razzismo di cui tutti i presidenti francesi sono responsabili. Questo con buona pace di certi Soloni nostrani che calcolatrice in mano sostengono che lo sfruttamento non è così marcato: il punto è che c’è, e che non sia marcato è un’opinione fondata su analisi superficiali, come si potrebbe spiegare entrando nei dettagli di un quadro enorme e lugubre.
E’ il quadro di uno sfruttamento dell’Africa che ha sempre avuto conseguenze simboliche fortissime sulla capacità dei neri di tutto il mondo di autodeterminarsi. La presenza arrogante della Francia, ma anche degli occidentali (e non solo), in Africa fa per il razzismo globale molto, ma molto di più dei non pochi incappucciati del Klu Klux Klan presenti nelle istituzioni americane (compresa la polizia, ovviamente).
Ma torniamo alla vita quotidiana e al razzismo velato che la permea.
E’ questo il genere di razzismo strisciante a cui faccio riferimento quando ne parlo: quello che si pensa ma che non si dice, quello che si accetta se implica una superiorità che ci lusinga, che ci conviene in quanto bianchi. Prima o poi affronterò la natura del razzismo e del perché tutti i giornali che ne parlano come se non esistesse, o come se costituisse un problema marginale degli italiani, e dei bianchi in generale, sbagliano.
Si chiedano, questi giornali, ad esempio perché le commesse o i commessi dei negozi spesso, troppo spesso, non riescono a dare del “lei” ad una persona di colore. Gli danno del “tu” come ad un bambino. E’ solo per una questione di (presunto) censo? O di (presunto) ceto? Anche un nero che ha fatto fortuna non rimarrà forse agli occhi di molti non una persona ricca, e neppure un nero ricco, ma un ricco nero? Qualunque cosa sia, si tratta di una sorta di discriminazione che può tramutarsi facilmente in qualcosa di peggio, basta che le circostanze politiche o sociali lo permettano. Meccanismi che sono sempre esistiti anche tra i bianchi. Diceva Bertrand Russell di aver conosciuto un socialista di alto rango sociale che di fronte all’idea di scuole miste dove i figli dei ricchi e dei poveri studiassero assieme lo indispettì a tal punto da farlo sbottare con la bava alla bocca: lui non avrebbe mai mandato i suoi figli in aula con degli straccioni!
Ma riprendiamo il tema iniziale.
Davvero il generale Lee merita una statua perché ha combattuto per la sua nazione razzista? Perché è stato un buon patriota? Ma proprio di lui non si può dire che sia stato vittima della mentalità del tempo in quanto chi combatteva gli mostrava che una mentalità del genere era anacronistica. C’erano già stati bianchi contrari al razzismo, da tempo, per non parlare dei neri più combattivi e consapevoli che urlavano il loro dolore, naturalmente. Molti cristiani si dicevano contrari, e potevano agire da coscienza sociale. Ma chi sfruttava gli schiavi non ne voleva sapere per interesse personale. Non voleva neppure accettare il cosiddetto principio di precauzione: nel dubbio che i neri (o gli “indiani”, o gli “indio”) siano esseri umani come me non li tratto da animali, non li metto in catene. Il principio di precauzione è forse solo un’invenzione moderna fatta valere per l’embrione? Io credo di no. Credo invece che esistessero molti strumenti concettuali già da tempi remoti per risvegliare le coscienze, o comunque inculcare parecchi dubbi, quando non delle vere e proprie certezze: ma la coscienza si può risvegliare solo se uno vuole ascoltare, se ha interesse a farlo, e i razzisti e gli schiavisti di ogni tempo non ce l’hanno mai avuto, questo interesse.
Così come esistevano già i modi per capire che tanta aggressività degli europei in epoca moderna era sbagliata, considerato quanto meno aggressivi fossero popoli altrettanto evoluti coi criteri occidentali come i cinesi. L’Europa è stato il continente più aggressivo della storia, e non ne farei un motivo di vanto, né farei una statua ad esso concedendola a personaggi che di tale aggressività erano i massimi rappresentanti (e quindi non solo gli schiavisti, ma anche, ripeto, i vari Napoleone, Churchill o De Gaulle).
Possiamo ancora portare argomenti a favore della “buona fede” del generale Lee e così via, ma il punto in realtà è un altro, il che vuol dire che è poi sempre lo stesso, quello principale, quello su cui ruota tutto il mio articolo: accettiamo pure tutte le attenuanti sul caso personale di Lee, ma nessuna mi convincerà che il noto generale meriti una statua per quanto ha fatto. Nessuno che sia stato portatore di idee o comportamenti oggi condannabili lo è. Questo significa allora aprire le porte al rischio che prima o poi nessun essere umano si rivelerà degno di una statua? Ma non è esattamente questa la conclusione a cui dovremmo arrivare? Certamente è la conclusione a cui voglio arrivare io col mio articolo.
Detto ciò, anche Aristotele era uno schiavista, e pure Voltaire e Rimbaud, a noi più vicini, ma nessuno ancora ha provato a distruggere le loro statue.
Ed io allora mi chiedo: perché le statue di Hitler o di Mussolini non possono rimanere e quelle di razzisti e degli schiavisti di tanto tempo fa sì? E, ripeto, perché le statue di Edward Colston e quella del generale Lee vengono abbattute, e quella di Aristotele (Aristotele!) e di Rimbaud no? Eppure anche esse meriterebbero una sorta simile, secondo me.
Forse il motivo è questo: perché il razzismo sudista o bianco ha continuato a imperversare in molte parti d’America (e del Regno Unito) anche dopo l’abolizione della schiavitù col sistema dell’apartheid mentre quello di Hitler no. Il sistema di Hitler è terminato con la sua morte e, soprattutto, con il crollo della Germania nazista. Il razzismo della Confederazione sudista non è finito con la sua sconfitta per mano degli stati dell’Unione nordista.
Ma non è allora questa una ragione in più per fare davvero i conti con la storia e la società americana, e per dire che statue del genere non hanno senso esattamente come non l’hanno avuto il razzismo e l’apartheid perpetrato a lungo dopo l’abolizione della schiavitù rivelando un problema strutturale e ancora almeno in parte attuale della società americana? Perché il razzismo sudista dovrebbe essere tollerato più di quello nazista? Se non ha usato i forni crematori, infatti, è stato capace di incunearsi nella mente della gente, dei bianchi – ma anche dei neri – in maniera più profonda, tenace, odiosa; soprattutto contro una certa “razza”, quella nera appunto. Ma prima di continuare, permettetemi di fare una correzione: gli statunitensi, soprattutto sudisti, hanno avuto anche loro dei forni crematori sui generis, pensati per eliminare una parte degli africani destinati ad entrarci in nome della “selezione naturale”; cos’erano infatti le navi negriere? Quanti neri, uomini e donne, sono morti stipati come animali in quelle miserabili navi della morte? Del resto tale selezione veniva fatta anche dai nazisti dei lager, tenendo fuori dai forni gli individui sani e forti che potevano servire. Almeno per un po’, come per un po’ potevano sopravvivere gli africani – torniamo a loro – che avevano superato il viaggio in mare, prima di morire per sfinimento sui campi di cotone o uccisi dai bianchi con le accuse più risibili: una parola mal detta, uno sguardo ad una donna bianca, etc.
Perché ebbene sì, gli americani ce l’avevano soprattutto con una razza, ripeto, quella dei neri. Erano loro infatti che dovevano essere sfruttati per questioni economiche, e il razzismo moderno era l’ideologia pensata per giustificare il modo in cui venivano trattati gli africani. Si trattava forse di un razzismo più accettabile, perché cioè rivolto a dei neri e non a dei bianchi come erano le vittime principali di Hitler, ossia gli ebrei? Era stato questo il grave peccato originale di “Hitler lo psicopatico”, attaccare un gruppo di europei spesso integrato e di alto livello culturale e professionale? Perché gli ebrei erano europei: europei, lasciatemi dire con le categorie di chi contesto, che più europei di così non era possibile; non come quei neri i cattivi comportamenti dei quali, guidati come furono per oltre un secolo dal sistema sudista dei bianchi, sembravano giustificare almeno in parte i razzisti americani non solo ai loro occhi, ma a quelli dei neri stessi?
Perché il capolavoro del razzismo americano, ripeto, fu questo: non solo spingere i neri a uniformarsi ai comportamenti che i bianchi si aspettavano da loro, per disprezzarli, per convincersi di avere ragione a tenerli sotto il tacco (i bianchi di fatto incoraggiavano i cattivi comportamenti tra i neri: alcolismo, certo, ma anche il furto ad esempio); no, il capolavoro del razzismo americano fu innanzitutto quello di spingere i neri stessi, i neri cioè svuotati da secoli di prevaricazione psicologica prima ancora che fisica, a guardarsi allo specchio e chiedersi loro per primi se i bianchi razzisti, sempre così bravi, intelligenti ed efficienti, non avessero qualche ragione a disprezzarli; peccato che se questo succedeva era proprio a causa dei bianchi, che avevano bisogno di creare dei soggetti insicuri, facili da controllare e dominati da un profondo complesso di inferiorità. Un’inferiorità dovuta all’ambiente di sviluppo, non certo alla genetica: un ambiente che i bianchi avevano curato in tutti i particolari, ossia misero da un punto di vista materiale e poverissimo di stimoli intellettuali.
E’ difficile scrollarsi di dosso secoli di torpore. Il bianco è riuscito a creare un uomo svuotato, senza un’identità se non quella della sua condizione inferiore a cui è difficile sfuggire per qualsiasi umano se gli viene impedito di dimostrare di valere qualcosa: e come fa a dimostralo se è nato in un ambiente poco stimolante, dove si dà per scontato che certi traguardi non sono alla sua portata da quando è piccolo? I neri non potevano svolgere molte delle cose concesse ai bianchi neppure volendolo. Quando andarono a combattere nella Seconda guerra mondiale per una patria che avrebbero dovuto odiare per come li trattava si accorsero di non poter fare molte cose concesse agli altri soldati, a parte morire. Dopotutto appartenevano all’esercito di una nazione razzista come quella contro cui stavano combattendo a riprova del fatto che la Seconda guerra mondiale non è stata proprio all’insegna della moralità: né da parte di Hitler, né da parte di Stalin e, sì, né da parte degli Stati Uniti di Roosevelt o dell’Impero britannico di Churchill, stato razzista in tutti i suoi domini (alcuni indiani dell’Asia addirittura decisero di combattere per Hitler formando una divisione a parte, tanto era l’odio per il “democratico” padrone britannico. Quanto ai neri chiamati a combattere nell’esercito di Sua Maestà, o in quello francese, per una patria che non era la loro, essendo anzi un’aguzzina del popolo a cui appartenevano, anche qui sarebbe interessantissimo indagare la componente psicologica di tali ragazzi, il loro dissidio interiore, o le ragioni della sua eventuale assenza).
E’ quello che io chiamo il “wrightismo psicologico”, dal grande scrittore Richard Wright che io non definirò autore afro-americano cadendo nella contraddizione che voglio evitare. Gli scrittori non possono essere distinti su base etnica, e la grandezza di “Ragazzo negro” è proprio questa, che il titolo non rende giustizia al testo. Il ragazzo di colore protagonista è invece lo “straniero” per definizione ai miei occhi, lo “straniero” cioè in spirito di cui si occupa la grande letteratura esistenzialista del Novecento, e che trova nel libro di Wright secondo me uno dei vertici del secolo scorso. Il ragazzo infatti è “straniero” sia rispetto ai bianchi sia rispetto ai neri che vogliono, di fatto, renderlo servo dei bianchi facendogli accettare quello che Wright definisce il “sistema sudista di vita”; come degli zombie che vogliono morderlo per farlo diventare zombie come loro.
Un sistema, sia chiaro, dove c’è spazio per permettere la crescita professionale di alcuni neri per tenere sotto la maggior parte degli altri.
Segnalo di passaggio che tale wrightismo non riguarda solo la dialettica razziale; ma ci sarà senz’altro modo di tornare sul tema.
In questo senso, anche un presidente di colore non fa la differenza se il sistema rimane in mano ai bianchi; se tale sistema spinge questo stesso presidente, ora ex, a pensare davvero che il voto sia utilissimo in un sistema razzista radicato come quello americano: di certo il voto ha cambiato la sua, di esistenza, quella di Obama, dato che l’ha portato alla Casa bianca, ma cosa ha fatto poi lui per cambiarla davvero a milioni di altri neri? Ben poco, sembrerebbe, e questo a partire da mille problemi che proprio lui, in quanto presidente di colore, doveva stare attentissimo ad affrontare. Certi suoi silenzi, certi suoi imbarazzi, hanno giovato alla causa bianca molto più di mille battaglie. E se ha fatto anche del bene è successo, per così dire, nonostante Obama, perché la sua elezione ha dimostrato proprio questo: che anche se c’è stato un presidente di colore le cose in America non sembrano poter cambiare. Il sistema di dominio bianco è troppo radicato. E se i neri hanno visto un leggero miglioramento economico questo è successo con Trump, cioè con un presidente in cui il sistema razzista, tutto giocato su un piano psicologico, è stato rafforzato. Non è l’andamento economico del sistema capitalista, infatti, che può cambiare davvero le cose. Ci vuole ben altro. Anche nell’Ottocento erano presenti negli Usa dei cittadini neri liberi e benestanti, ma non valevano quanto i cittadini bianchi di fronte alla legge. Da quando, infatti, il miglioramento economico di una etnia significa cambiamento di un sistema discriminatorio? Trump ha detto che lui ha aiutato i neri più di tutti gli altri presidenti compreso Obama. Davvero lo pensava? Forse sì, prigioniero com’era a sua volta di una gabbia psicologica che per lui, sia chiaro, era ed è una gabbia dorata. Come quella di molti sudisti razzisti che pensavano di trattare bene i neri, che ritenevano cioè che i neri si trovavano meglio con loro che con i bianchi del Nord più aperti solo a parole, perché loro sì, i bianchi del Sud, capivano i neri e le loro esigenze. Davvero le esigenze dei neri sono solo di tipo economico secondo Trump? Ed esigenze di un livello piuttosto modesto, per di più.
Da quando in qua un miglioramento economico fondato sullo sfruttamento capitalista dei più poveri può definirsi vero cambiamento? Trump con la sua frase ha solo voluto sostenere un sistema che funziona a vantaggio soprattutto dei bianchi, dei cosiddetti wasp in particolare. Il vero cambiamento, in un sistema capitalista dominato dal potere bianco, è quello di permettere a tutti in misura simile di uscire dal gruppo dei poveri, che è esattamente quanto non viene garantito ai neri d’America, se proprio si deve mantenere un sistema dove c’è chi scende e c’è chi sale, ma dove qualcuno sopra e qualcuno sotto da sfruttare ci deve sempre stare. Ecco, peccato che questo “qualcuno sotto” sia stato, in proporzione, molte più volte un membro del gruppo dei neri che di quello dei bianchi anche dopo la fine della segregazione razziale. E si sta parlando qui di un punto di vista economico: meglio non parlare poi di altri come la dignità personale, e così via.
Ma forse Trump, quando diceva di aver aiutato i neri più dei suoi predecessori, parlava a quei neri che ragionavano come erano stati educati a fare dal sistema dominante degli americani di origine europea, dove non si andava a scavare troppo nelle ragioni dello status quo americano, sistema che li aveva sempre spinti a guardarsi con gli occhi dei bianchi. Parlava insomma ai tanti zio Tom degli Stati Uniti, il caro presidente americano…
Questa situazione ha fatto almeno in parte morire le speranze del cambiamento in molti neri più combattivi e consapevoli, quelli che zio Tom non sono; sia la politica timida e balbettante alla Obama che quella ipocrita di Trump. Obama, ripeto, doveva stare attento a quello che faceva e diceva per non essere accusato di razzismo al contrario, di favoritismo nei confronti dei neri. Per alcuni l’ex presidente si è attenuto scrupolosamente a questo programma. Al programma cioè di un sistema di dominio bianco dove lui si trovava benissimo, considerato dove era arrivato. Ma la sua carriera è stata, per molti, solo uno specchietto per le allodole. Era stato questo il suo scopo in un sistema così concepito, concepito per il dominio della maggioranza bianca, e delle elite bianche in particolare. Questa è la grande accusa che alcune persone di colore gli muovono, tanto più adesso, quando Obama sostiene che il sistema di dominio bianco si possa aggirare col voto. “Andate a votare” ha detto Obama alle folle inferocite di questi giorni, per cambiare le cose. Andate a votare? Ma il voto sarebbe comunque quello di una minoranza – perché i neri sono una minoranza, non dimentichiamolo – a favore di qualcuno che, per di più bianco, di certo non li può rappresentare granché: infatti i candidati neri non esistono, non sono mai esistiti, e lui, Obama, ne è un chiaro esempio: sua madre era bianca, e lui nero quindi non è mai stato, se ne vogliamo fare davvero una questione di “razza” e mettere i puntini sulle i. Sto facendo qui un discorso di simboli politici più che di biologia, sia chiaro. Il voto per combattere il razzismo era la cura da cavallo che si poteva propinare agli Usa razzisti nella seconda metà dell’Ottocento, quando tale diritto esisteva per i neri, ma di fatto veniva loro impedito di esercitarlo. Ora il voto continua a servire, certo, ma deve essere affiancato da altre pratiche più significative e profonde del mettere un non bianco al comando di qualcosa, se il sistema del potere bianco rimane predominante e usa questi casi come specchietto per le allodole, come Obama stesso, ripeto, è stato. E proprio il suo caso mi spinge a capovolgere l’assunto di base: non è la sua nomina a presidente che dimostra un indebolimento di tale sistema; anzi, è proprio il fatto che un tale sistema abbia retto con un nero alla Casa bianca che ha dimostrato sino in fondo la sua forza, e quanto il voto non significhi molto se alla scelta delle persone non seguono le buone pratiche, pratiche da “picconatore” si direbbe in Italia, che nel campo del razzismo americano risulterebbero di un impatto dirompente, pericolose per la tenuta del sistema nel suo complesso, fondato com’è sullo sfruttamento delle minoranze (non solo nera ovviamente, ma innanzitutto nera, questo sì).
Per quanto riguarda Trump, lasciamolo perdere: i suoi interessi sono chiari da quando faceva il palazzinaro a New York e non affittava ai neri; ma se neppure con un presidente di colore le cose sono potute cambiare nel profondo cosa devono aspettarsi i neri perché questo succeda? Da qui la rabbia di molti. Un po’ come è capitato in Sudafrica: prima della libertà dai bianchi razzisti la maggioranza nera poteva pensare che la loro miseria fosse dovuta all’apartheid; ma quando al potere sono saliti dei neri come loro e poco è cambiato, ebbene, allora molti, troppi africani di colore hanno perso ogni speranza; sono quelli che tutti i giorni, ancora ora, vanno a sparare per strada nei centri di città come Johannesburg; vanno a sparare a neri e bianchi senza distinzione.
Ma per tornare agli Stati Uniti, sospetto che le grandi frustrazioni del momento che hanno portato alla furia iconoclasta siano state scatenate dalla scintilla dell’uccisione di Floyd, siano state alimentate dalla grande difficoltà economica legata al covid 19, dai discorsi di Trump e, in maniera più profonda, da quanto ha rappresentato Obama per via di molte speranze che ha saputo generare invano, creando cioè una tensione ancora più profonda di quella creata dall’istrionico e prevedibile Donald.
Ma torniamo al razzismo americano (o meglio statunitense: anche qui il linguaggio ci confonde e prende venature razziste, quasiché l’America si riducesse agli Usa, o la vera America fossero i 50 stati a stelle e strisce e basta. E il Messico? E il Brasile? E il Canada? Non sono America quelli?).
Un razzismo del genere, io credo, non ha ragion d’essere proprio per i motivi che ho detto, motivi profondi, o mi sbaglio? Gli Usa razzisti hanno fatto un mea culpa, hanno preso iniziative per sradicare il razzismo mentale ancora prima che sociale? Il razzismo invisibile che fluttua ovunque nell’aria ed è difficilissimo da raccogliere e rigettare. Ebbene, io credo di no, e questo per via di quelle concessioni (l’abolizione dello schiavismo, ma anche dell’apartheid e della mancanza reale del diritto di voto) che non sono bastate a cambiare l’America da un punto di vista mentale, cambiarla cioè sino a smettere di essere considerate tali, concessioni appunto.
Perché è sempre questa la questione a monte, che un gruppo “concede” ad un altro qualcosa come le varie abolizioni di cui parlavo. E finché si penserà in questi termini, temo, il razzismo (come il sessismo, l’omofobia, etc) non verrà mai davvero estirpato dalle menti americane: bianche, certo, ma anche di molti altri colori, come ho cercato di spiegare rappresentando il capolavoro psicologico che sta alla base, e che mette in crisi, esso per primo, ogni discorso sull’importanza del voto negli Usa attuali.
Le statue possono essere un primo passo per segnalare una profonda e complicatissima questione culturale da affrontare. Ma prima o poi tale questione dovrà essere analizzata davvero, e di petto. Che il razzismo americano sia stato soprattutto “negrismo” per ragioni storiche a me sembra abbastanza chiaro. Da qui bisogna partire, dalla storia economica e sociale per risalire a quella culturale e psicologica degli Usa. Dopodiché bisognerà passare dall’inevitabile constatazione che proprio per tali motivi, psicologici prima ancora che sociali, gli Usa sono stati a lungo, e sono in parte tuttora, non una democrazia bensì una “dermocrazia” (come l’Inghilterra sedicente patria della democrazia moderna, sia chiaro): una nazione cioè fondata sul potere della pelle, non del popolo. Se lo era davvero, del popolo, perché infatti escluderne una parte per il colore della pelle e di alcuni tratti somatici?
Se il contesto è questo allora la storia, difesa da certi Soloni nostrani, non potrà avere nulla da eccepire contro la caduta di qualche statua.
Anche perché, si sa, la storia è una interpretazione, quando non un’invenzione, dell’uomo; di solito, però, dell’uomo che vince, non di quello che perde. E sinora a vincere è stato sempre e soltanto l’uomo bianco, per lo meno negli Stati Uniti.
Pensiamo ai libri di storia scritti non a caso dai bianchi (o dalle vittime psicologiche del loro sistema di dominio psicologico) quando parlano della “scoperta” dell’America, ad esempio. Il razzismo si nutre di frasi del genere. L’America non è stata scoperta da nessuno, era già abitata da uomini quando arrivarono gli europei. Ed è lo stesso motivo per cui l’Europa è definito il “vecchio” continente, no? Gli altri continenti, come le Americhe o l’Oceania, sono “nati” quando sono stati “visti” e occupati dagli europei. Il linguaggio, spesso, esprime il razzismo degli occidentali in una maniera strisciante e profonda… Tutti noi lo sappiamo, ma non ci pensiamo mai abbastanza – questo è il punto -, e ci comportiamo un po’ come il filosofo e vescovo irlandese Berkeley, per il quale le cose esistono solo se a guardarle c’è il soggetto giusto: lui lo faceva per sostenere l’esistenza di Dio in chiave anti materialista – lo sguardo senza il quale non ci sarebbero le cose, infatti, è il Suo -, noi, evidentemente, per sostenere l’esistenza dell’uomo-dio. Infatti solo quando l’America venne vista dal bianco incominciò ad esistere davvero. E’ un fenomeno, questo, che io chiamo “berkelismo razziale”. E’ l’uomo bianco che fa esistere le terre del pianeta. E l’uomo-dio bianco era quello a cui doveva rivolgere la propria sottomissione psicologica il nero. E poco importava se anche il nero poteva pregare il dio dei bianchi, il dio dei cristiani. Il cristianesimo, infatti, poteva rendere gli animi dei neri più docili, più assoggettabili. L’importante era che la finzione di un nero figlio di dio come il bianco rafforzasse nel primo la sudditanza che contava davvero per il secondo. Ed è, questo, il motivo per cui molti neri combattendo il sistema sudista di controllo psicologico creato dai bianchi non poterono non liberarsi di uno degli strumenti di tale controllo, ossia la religione del bianco a cui il nero aveva aderito sino a quel momento.
Martin L. King non era riuscito a spiegare perché bisognava seguire una religione che non aveva contrastato la discriminazione dei neri, e che anzi l’aveva assecondata e sostenuta in maniera puntuale. Questo, a torto o a ragione (sia chiaro), era probabilmente la maggiore accusa che Malcolm X rivolse al cristianesimo e a quei neri che facevano gli interessi dei bianchi dicendosi seguaci di Cristo.
E questo ci dovrebbe far riflettere, perché nel frattempo qualcosa sta cambiano a livello globale, potenze non bianche stanno crescendo e sviluppandosi. Anche su questo prima o poi bisognerà riflettere. Riflettere cioè se in un mondo dove il bianco non sia l’unico a comandare, dove non sia l’unico a dimostrarsi vincente da alcuni importanti punti di vista, ci possa essere un vantaggio anche per la lotta contro il razzismo in generale, un razzismo che serpeggia per il mondo da secoli soprattutto a causa dei bianchi, dei loro colonialismi e imperialismi fondati sulle discriminazioni della pelle necessarie allo sfruttamento economico.
Io temo di no. E temo che per contrastare il “negrismo” americano in particolare ci voglia, tra le altre cose, il “risveglio”, anzi l’esplosione, economica e culturale dell’Africa, non della Cina (le cui tendenze al razzismo per altro non mi sono chiare): esattamente quella che ancora oggi gli occidentali in primis impediscono nel cosiddetto “continente nero” (ancora un brutto scherzo del linguaggio?) a causa dei propri egoismi nazionali (la Francia di cui tanto si è parlato a proposito dei 14 paesi africani che tiene sotto il tacco, certo, ma anche l’Italia con le sue imprese che sfruttano le risorse africane contrastando lo sviluppo di campioni aziendali locali, e così via).
Ma se il razzismo è nato nella storia moderna per giustificare lo sfruttamento economico di un gruppo di persone, e questo sfruttamento è ancora in piedi e riguarda interi stati africani, mi chiedo se si possa dire che noi europei sotto sotto siamo ancora razzisti per convenienza, per giustificare questo stato di cose. Siamo tutti, insomma, complici e seguaci del razzismo planetario quando facciamo finta di non accorgerci che il nostro benessere dipende dallo sfruttamento altrui. “Loro non potrebbero farcela da soli”: non è questo che si sente dire spesso a proposito degli africani sfruttati? Non è questo che dicevano con tono paternalistico i bianchi sudisti che pensavano di fare l’interesse dei neri tenendoli sotto il tacco? E’ un meccanismo che i bianchi seguono sempre volentieri per giustificare dei privilegi, ed è qualcosa che i neri sentono con rabbia ma spesso non trovano le parole giuste per spiegare, trattandosi solo della punta dell’iceberg. Da qui l’esplosione di odio, da qui la frustrazione, da qui il senso di essere in un mondo che non vuole ascoltare perché le loro ragioni le conosce già, ma non gli interessano. Come potrebbe? “Mors tua vita mea” è sempre stato il motto del mondo bianco.
Se queste sono le premesse, sì, forse è meglio che a farne le spese sia solo qualche statua e non qualche individuo in carne ed ossa, nella speranza che i poliziotti americani seguano l’esempio dei manifestanti, se proprio devono sfogarsi, e lascino perdere gli esseri umani di qualunque colore siano.
Ma sarebbe stato meglio, molto meglio, se alla rimozione delle statue avessero provveduto le autorità competenti. Questo è fuori di dubbio nell’interesse dei manifestanti, certo, ma anche del cosiddetto potere costituito americano.
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.