Il Sud e la sfida all’Italia

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Oggi si parla molto di Emilia Romagna per via delle elezioni regionali.
In effetti, sembrerebbe che tale regione, spesso criticata dalla destra, è quella che è cresciuta di più negli ultimi anni.
E poi c’è la Lombardia, naturalmente, la locomotiva d’Italia. Infine, il Veneto che, a lungo considerato il Sud del paese, oggi è una delle regioni più vivaci e ricche, in qualche modo sostituendosi all’altro polmone settentrionale del paese, ossia il Piemonte, che ha perso qualche posizione, legato come è soprattutto ad una grande azienda, alla Fca e al suo indotto.
Ora, si potrebbero aggiungere altre regioni. Il Trentino Alto Adige, ad esempio, altro territorio che da povero è diventato ricco. Certo, lo è diventato anche perché si trattiene gran parte delle tasse (soprattutto l’Alto Adige ci riesce), ma pure altre regioni lo fanno e non mi pare che abbiano ottenuto gli stessi risultati. Regioni come la Sicilia che, pur essendo molto diverse, non mancano a propria volta di grandi risorse naturali e paesaggistiche che potrebbero risultare un volano economico impressionante.
A tal proposito, certe volte mi viene da chiedere se lo “statuto speciale” di cui gode la Trinacria sia qualcosa che si meriti (come il Trentino Alto Adige), e se, insomma, non sia venuto il momento per l’isola di tornare ad essere una regione a “statuto normale” (stesso discorso per la Val d’Aosta, naturalmente, spesso in difficoltà a propria volta nonostante appartenga al profondissimo Nord – sia chiaro -).
Comunque, se questo è il quadro mi chiedo: è possibile che le regioni più evolute da un punto di vista economico e sociale, Lombardia, Emilia Romagna e Trentino Alto Adige, decidano ad un certo punto di organizzare dei gruppi di lavoro da inviare nelle regione neglette, in particolare meridionali, dove studiare la situazione e dire come agirebbero loro per affrontarla? Questo, ovviamente, in tandem non solo col governo nazionale ma anche con Bruxelles, soprattutto in vista di risorse che non possono essere più sprecate.
Il fatto che in Italia siano presenti le regioni più povere dell’Europa occidentale e che proprio esse non riescano a usare la montagna di soldi messa a disposizione per la crescita è qualcosa che grida vendetta al cielo, io credo.
Ho già scritto che una condizione di povertà che possa sfruttare grandi opportunità tecnologiche come quelle oggi disponibili nel settore agricolo, industriale, turistico e dei trasporti è qualcosa che non si era mai visto: situazione, questa, che sta garantendo alla Cina, ad esempio, ed alle sue numerose zone neglette molte opportunità di crescita.
Perché quello che avviene in una dittatura non può avvenire in una liberaldemocrazia per quanto imperfetta come la nostra?
E’ il modello politico e sociale occidentale che si sta mettendo in gioco nella battaglia per la crescita del Sud italiano.
Troppe sirene stanno suonando contro la liberaldemocrazia, oggigiorno.
L’ex agente segreto dalle maniere spicce e dal pensiero tutt’altro che profondo Vladimir Putin si è permesso di metter becco nelle questioni europee sostenendo che proprio tale modello, quello liberaldemocratico, non funziona più. E il caso del Sud italiano sembrerebbe dargli ragione: peccato che parrebbe dargliela nel confronto con la Cina e non con la Russia, dove invece il modello che lui stesso incarna lo contraddice nei fatti, dato che il suo enorme paese è ben lontano dal rappresentare un esempio di crescita economica per l’Occidente (figurarsi, poi, rispetto ad altri aspetti, come lo sviluppo dei diritti civili, tanto per fare un esempio a caso).
No, il signor Putin è meglio che stia zitto, per evitare di spingere qualche osservatore a puntare i riflettori sul sistema del malaffare, del malcostume e della corruzione dilaganti presenti in Russia da sempre, sì, ma soprattutto da quando è lui al potere (un romanzo recente, “Gli ultimi giorni di vita di Vladimir P.” di Michael Honig, può aiutare a farsi un’idea di cosa sia la Russia oggi, oltre allo splendido saggio “L’inverno sta arrivando” dell’ex campione del mondo di scacchi Garry Kasparov, già citato da me mille volte).
Ma la Cina esiste, e sta crescendo come l’Occidente non fa da tempo. E la Cina è una dittatura, nonostante tutti i distinguo degli europei che lavorano con Pechino, in un modo o nell’altro. Lo è eccome, una dittatura, e uno dei simboli di tale feroce dispotismo è rappresentato dai cosiddetti laogai, i lager, o gulag, cinesi.
Dato che non vorrei che un giorno qualche frettoloso e superficiale occidentale iniziasse a indicare nella Cina attuale un modello da imitare – già mi basta e avanza tutta la chiacchiera di molti miei connazionali ingenuotti o in malafede che vorrebbero un Putin al governo anche da noi -, mi piacerebbe che questa affaticata liberaldemocrazia, la nostra, quella italiana, si svegliasse una volta per tutte, e la smettesse di concentrarsi, come si suol dire, sul proprio ombelico con la sua brillantissima nomenklatura partitica, e si guardasse attorno, e vedesse cosa si può imitare e cosa si può migliorare nei modelli che abbiamo in casa, ed in quelli che stanno all’estero, e alla fine prendesse decisioni serie sul piano economico.
Perché Marx avrà detto tante cose sbagliate ma qualcuna giusta, e profonda, l’ha espressa. E quella per cui l’economia è alla base di gran parte di tutto il resto, rimane vera. Su questo non ci sono dubbi. Il benessere economico è la “conditio sine qua non” si possono sviluppare progetti di crescita culturale, professionale, di lavoro, di vita – spirituale addirittura -.
Tornando al nostro Sud, il fatto che due grandi città europee come Napoli e Bari non siano ancora collegate decentemente, certamente non come Milano e Torino, grida vendetta al cielo, come mille altre cose che si possono notare al Sud. In Francia esiste una pubblica amministrazione formatissima che ispira la classe politica e che tiene sotto controllo scelte che richiedono anni, se non decenni, per essere sviluppate. Credono forse gli italiani, ed i loro politici ombelicocentrici, che le centrali nucleari transalpine siano state create da un unico governo? No, ce ne sono voluti parecchi, ma questo fa parte di una strategia nazionale che uniforma la politica francese da decenni, e per la quale essa è riconoscibilissima (nel bene e nel male, sia chiaro). La Francia non vende volentieri le proprie aziende, e ama comprarle. Ama far bottino per veder crescere senza troppi sforzi il proprio pil, e la propria produzione industriale, quando non le proprie esportazioni (anche sfruttando in maniera sfacciata, e inumana, l’Africa, l’ho ripetuto mille volte: con la conseguenza di drogare la propria economia e sviluppare una concorrenza scorretta nei confronti dei propri partner occidentali ed europei – e mediterranei come l’Italia in primis -).
Le centrali nucleari, dicevo: così la Francia ha energia da esportare, e la vende anche all’Italia, che quindi contribuisce ad arricchire un paese che è il nostro principale concorrente sotto vari aspetti; e questo quando è proprio l’Italia che avrebbe bisogno di produrla lei, tale energia, per tenere bassi i prezzi dei manufatti che fabbrica. Per non parlare poi di una strategia di export (almeno un po’) aggressiva sui mercati internazionali che manca vuoi a causa delle piccole dimensioni delle nostre aziende, vuoi perché nessuno ha cercato di creare un abito su misura per tali realtà in maniera strategica, fermandosi a constatare l’esistenza di distretti industriali come se essi davvero potessero competere con le multinazionali straniere.
Sarebbero, questi, discorsi che ci porterebbero molto lontano, e che pure sono fondamentali soprattutto ora, in tempi di guerra in Libia, dove la nostra strategia si è dimostrata debole, e tale da dover inseguire quella altrui, a partire dalla strategia della Francia, responsabile numero uno del disastro libico come ben sappiamo, e che ancora una volta ha mostrato i contro della propria strategia di esagerata difesa degli interessi nazionali sotto una prospettiva europea, per non parlare delle mosse dei turchi e, infine, di Putin, il quale ha tutto l’interesse di posizionarsi dove occorre controllare la produzione del petrolio, dal cui prezzo sui mercati mondiali dipende la forza interna dell’ex cekista.
Ma torniamo alle questioni economiche interne italiane: e cerchiamo di capire se un modello lombardo, o emiliano romagnolo – ma anche, perché no? milanese o bolognese – sia almeno  in parte trasferibile, che so, in Calabria o in Basilicata, a partire – come dire? – da scelte di campo diverse, anche di tipo culturale, come quella di rendere inaccettabile la vista di frasi tipo “Qui è vietato l’ingresso ai cani e ai gay” sui cartelli all’entrata di questo o di quel bed&breakfast della Sila.
C’è chi parlava, alla Bocconi, di rottamazione degli alberghi al Sud (anzi, in tutta Italia). Non so se sia un’idea azzeccata. Quello che so è che l’Italia ha tutte le intelligenze e le risorse per dare un colpo di reni alla propria politica economica, e a quella del recupero del Meridione in particolare. Perché se non parte il Meridione l’Italia sta ferma. Ma guardiamo, per una volta, il bicchiere mezzo pieno: pensiamo a cosa potrebbe diventare questo grande paese, questa superpotenza culturale come un politico, peraltro chiacchieratissimo, la definì un giorno, se il Sud ingranasse la marcia giusta.
Con la tecnologia oggi a disposizione, o con qualsiasi altro mezzo che il mondo ci possa indicare, o con la sinergia di vari strumenti (al di là, voglio dire, di quella con le regioni del Nord) – tecnologia, iniziative economiche e fiscali a sostegno degli investimenti italiani e stranieri, creazione di incubatori aziendali, ma anche di centri di ricerca avanzati a cui affiancare prima le multinazionali e poi le start up nate all’ombra delle università e della loro gloriosa tradizione meridionale -, si può procedere nella giusta direzione, anche col sostegno delle migliaia di manager e imprenditori di origine meridionale sparsi per il mondo: sempre a patto, però, di rimanere sotto l’ombrello di un sistema aperto e liberale che non tolleri facili e pericolosissime scorciatoie ideologiche e politiche.
Un giorno pensai che un modo per far crescere l’Africa fosse quello di un gemellaggio molto concreto tra regioni – o paesi – ricchi d’Europa, e paesi africani. Che so, Svezia e Gabon, o Lombardia e Zambia, e così via: per non parlare, poi, di un progetto di volontariato di giovani europei neolaureati in materie, mi si passi la definizione, “immediatamente utili” (medicina, ingegneria, agraria, veterinaria, etc) in Africa.
Per l’esattezza, avevo in mente una grande nave piena di volontari che circumnavigasse il continente, tanto per iniziare, e che consentisse il contatto tra la gioventù europea super preparata e vogliosa di mettersi in gioco – e non solo di lauti guadagni come troppa parte della nomenklatura delle organizzazioni internazionali – e quella africana.
Oggi penso che prima di andare a fare i “fenomeni” in Africa occorrerebbe  fare lo stesso in Italia: dei gemellaggi tra varie zone del paese per uno scambio e una crescita comune gestita coi mezzi adatti; tra, che so, Enna e Brescia, o Catanzaro e Verona. Cosa potrebbe dare Brescia a Enna? Ma cosa potrebbe dare anche Enna a Brescia? E Brindisi?
Si tratterebbe, ovviamente, di iniziative da associare ad altre.

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