Molti anni fa scrissi un pamphlet intitolato “Giovani e potere”, con la prefazione di Dino Cofrancesco.
Non ebbe successo, la casa editrice era piccolissima e io ero un perfetto sconosciuto: lo sono tutt’oggi, ma all’epoca ancora di più.
La tesi di fondo era che i giovani dovessero rivendicare maggiore potere subito. Non dovevano cioè aspettare di invecchiare per farlo. Questo per vari motivi, a partire da quello per cui chi avrebbe ottenuto il potere a distanza di anni poteva essere benissimo una persona sostanzialmente diversa da quella che aveva deciso anni prima di aspettare in suo favore. Introducevo così la questione mai risolta dell’identità nel tempo dell’individuo, il quale sembra in effetti tenuto assieme nelle varie fasi della propria vita solo dalla memoria.
A parte una simile considerazione squisitamente filosofica (ed oggi, forse, almeno in parte neuroscientifica), il motivo ulteriore per cui uno può decidere di non aspettare di invecchiare per pretendere maggiore potere è proprio questo, che nel frattempo invecchia: e quindi la persona che nel futuro potrà ottenere il potere per il quale avrà atteso tanto tempo, forse potrà vantare meno titoli di colui che avrebbe dovuto rivendicarlo molto tempo prima, in nome di qualità fisiche e intellettuali che ha da giovane, e che col passare del tempo perderà in gran parte.
Tali erano le principali considerazioni del mio pamphlet, e i motivi per cui abbracciavo il “carpe diem” in chiave politica.
Tali sono stati i motivi per cui all’inizio non ho guardato con antipatia al Movimento Cinque Stelle, composto come era, ed è, di moltissimi giovani desiderosi di non aspettare di invecchiare per rivendicare i propri spazi politici. Senonché i problemi sono nati appena ho capito chi sarebbe dovuto essere il portavoce di tale Movimento, ossia un giovanotto che era stato scelto da Beppe Grillo per qualità onestamente imperscrutabili.
Intelligente senza essere brillante, istruito senza essere colto, eloquente senza essere carismatico, il signor Di Maio non mi sembrava e non mi sembra tuttora la persona giusta per cambiare le cose in Italia, per convincere cioè i miei connazionali che un giovane al potere possa fare di più e di meglio di un vecchio.
Scelto da Beppe Grillo per doti caratteriali più che culturali, nonché per una personalità meno spiccata di alcuni suoi concorrenti, Di Maio è lo stereotipo dell’italiano appena sopra la media, quello cioè che la maggioranza comprende per via di una superiorità, ripeto, solo accennata: un po’ più carino della media, un po’ più istruito della media, un po’ più loquace della media, Di Maio non mette in soggezione nessuno e si fa capire da tutti. Questa è la sua qualità principale, che rientra in un modo di concepire la politica “alla vecchia maniera”.
Di Maio è il “giovin politico” (anche nel modo di parlare e di vestire) esattamente come lo vorrebbe suo nonno: sorridente, alla mano, diretto, è il ragazzo sveglio, gentile ed educato della porta accanto. Poco importa, poi, che per fare il Ministro occorra ben altro, il cittadino medio si è stancato dei “superman” che alla fine non hanno combinato nulla.
Senonché qui in Italia di superman se ne sono visti davvero pochi negli ultimi decenni, ché un conto è farsi credere tale (come D’Alema o Vendola), ed un conto è esserlo: la sfida, però, consisteva nel mettere un superman vero al Governo, e con Di Maio una simile sfida è naufragata miseramente perché non basta essere giovani per avere delle doti superiori. Questo nel mio pamphlet l’ho scritto chiaramente.
Come ho criticato aspramente quei ragazzi che pensano di avere diritto ai privilegi dovuti ai legami familiari, e odiano un sistema meritocratico dove verrebbero spazzati via: vorrei sapere quali sarebbero i meriti reali di Di Maio per essere stato preferito da Grillo ad altri, a parte l’affidabilità del mediocre. Per tale motivo credo che pure Grillo sia un mediocre (politicamente parlando), perché non ha avuto il coraggio di scegliere qualcuno capace di fare davvero la differenza. Con Di Maio il rischio è che, dopo di lui, tutto torni davvero come prima, ed anzi peggio di prima, soprattutto per i ragazzi.
In questi giorni altri giovani, anzi giovanissimi, sono saliti alla ribalta: quelli che sfidano gli adulti che accusano di lasciare loro un mondo super inquinato e climaticamente instabile, i cui effetti soprattutto i ragazzi di oggi dovranno affrontare. Non mi piace l’idea che la sfida dei giovani sia stata lanciata in nome dei ragazzi che non saranno più, in nome cioè degli adulti che diverranno e che saranno chiamati ad affrontare i disastri che gli adulti di oggi stanno preparando. Quanto più bello sarebbe stato un approccio diverso, l’approccio di chi dice “Noi ragazzi ragioniamo con la nostra testa, senza essere servi di questo o di quel potere economico, noi non vogliamo vivere in un mondo inquinato per colpa vostra, cari adulti!”
E’ come se loro, invece, continuassero a ragionare da vecchi, non mettendo in discussione la questione dell’identità nel tempo dell’individuo, ma se questo è il prezzo da pagare per dare maggiore peso alle proprie rivendicazioni, ben venga, per carità.
Detto ciò, ho apprezzato di più ciò che i giovani americani hanno comunicato qualche tempo fa al Presidente Trump rispetto alla questione del porto d’armi, anche perché i ragazzi anti-armi sono tali per quanto essi non vogliono subire nel presente, non nel futuro, ossia nelle scuole dove studiano ora, e dove quasi ogni anno si scatena l’inferno a causa di qualche esaltato armato sino ai denti che fa strage di studenti.
Ecco, io preferisco questi ragazzi americani alla giovane svedese ambientalista dall’immancabile treccia, ragazzi che parlino in nome di quanto li riguarda in qualità di ragazzi, che parlino dell’hic et nunc insomma, e non in nome di un futuro di cui si fanno portavoce con un’operazione discutibile sul piano della filosofia, sì, ma, dopotutto, anche del buon senso.

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