Una mia intervista ad Emanuele Severino per il numero di Ideazione uscito a luglio 2001 (anticipata a tutta pagina da Il Giornale il 12 dello stesso mese)

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Nel 1969 Emanuele Severino, docente alla Cattolica di Milano dal 1954, lascia questa università.
Al cuore della decisione una questione squisitamente filosofica: il famoso “ritorno a Parmenide”, la consapevolezza dell’impossibilità che l’essente non sia. Una consapevolezza teoretica che è anche etica e politica: la crisi della filosofia e della cultura occidentale hanno origine nell’interpretazione parmenidea degli essenti. All’epoca, due sue opere, “La struttura originaria” del 1958 e “Ritornare a Parmenide” del 1964, attirarono su Severino un processo vero e proprio, condotto dal Sant’Uffizio, fecero scalpore e generarono anche fraintendimenti. Affermando che gli essenti sono nulla, il sistema di Parmenide è la prima forma di nichilismo, a cui farà seguito tutta la tradizione filosofica dell’Occidente, e a cui intende contrapporsi il pensiero del pensatore bresciano.
-Professore, parlando di Giovanni Gentile lei ha fatto riferimento all’incapacità degli italiani di capire i propri grandi pensatori. Stava pensando anche alla sua vicenda?
No, non pensavo a me stesso. E non parlavo dell’incapacità di tutti gli italiani. In Italia ci sono stati anche quelli che hanno capito l’importanza di Giovanni Gentile. Penso ad esempio ad Ugo Spirito, a Guido Calogero, a Gustavo Bontadini. Anche se sono nomi che risalgono a parecchio tempo fa. Ai miei occhi Gentile appartiene a quella triade di pensatori decisivi che hanno compreso a fondo e determinato la crisi della tradizione occidentale. La triade costituita da Leopardi, Nietzsche e Gentile porta l’essenza del pensiero occidentale alla sua formulazione più radicale. Di Gentile sentii parlare per la prima volta a undici anni da mio fratello che studiava alla Normale di Pisa. E da allora non l’ho più perso di vista. Certo, che io consideri Giovanni Gentile  un pensatore decisivo non significa però che mi trovi d’accordo col suo pensiero. Affermare il carattere decisivo del pensiero di Gentile significa afferrare il suo carattere decisivo all’interno della civiltà occidentale. Cioè all’interno di ciò che nel mio discorso si presenta come la storia della Follia. Quindi la grandezza di Gentile è nel rigore in cui la Follia si costituisce. Io sto agli antipodi di Gentile: ma si tratta di un grande antagonista.
-Perché non considera altrettanti decisivi Heidegger, Russell o Wittgenstein?
Perché Leopardi, Nietzsche e Gentile mostrano, anzi dimostrano – parola forte che oggi viene guardata con sospetto – l’impossibilità di un ritorno al passato, l’impossibilità dei valori fondamentali del passato. L’affermazione di Nietzsche che Dio è morto non è la battuta di un letterato. E’ l’espressione di una fondazione radicale. Tutto sta nel cogliere in cosa consista la radicalità di questa fondazione. Quando ci volgiamo verso Heidegger, invece, tale radicalità non c’è. Heidegger gode di un credito così ampio in tutti i settori della cultura filosofica, e non solo filosofica, perché lascia aperte le porte. Quando un pensatore dice “solo un Dio ci può salvare” vuol dire che ancora mantiene viva la figura, seppur ripensata, del divino da cui può giungere una qualche forma di salvezza, lascia una porta aperta. Quando Nietzsche afferma che Dio è morto, chiude tale porta, la spranga, e mostra la necessità del suo essere sprangata. Così anche Gentile, sebbene in lui il linguaggio possa far pensare ad una sorta di cristianesimo immanentistico. Non a caso molti dei suoi scolari (Guzzo, Sciacca, Battaglia, etc) sono stai esponenti del cosiddetto “spiritualismo cristiano”.
-Con chi si trova in disaccordo?
Ho del disaccordo questa idea: che valga la pensa di provarlo di fronte a grandi discorsi. Prima le dicevo di essere agli antipodi di Gentile (e di Eschilo, Leopardi, Nietzsche). Il disaccordo rispetto alle cose mediocri non è un gioco, ma noia; e se fosse un gioco non varrebbe la candela. Comunque se dovessi esprimere i miei gusti circa lo “stile” filosofico direi che preferisco i filosofi del neo positivismo – Schlick, Carnap, Neurath – rispetto ai filosofi francesi tipo Derrida o Deleuze. Il discorso di Derrida è un discorso di tutto rispetto. Mi sembra però che a volte il filosofo francese usi in maniera troppo disinvolta il linguaggio.
-Passiamo agli autori italiani: che idea ha di Umberto Eco?
Ho stima della sua attività di semiologo. Sono un po’ meravigliato del successo di certi suoi romanzi. Mi domando come possano aver suscitato passione e divertimento in tanta gente. Ma forse la gente compra i suoi romanzi per far credere di avere un certo livello culturale. Comunque, se dovessi fare una classifica, prima di Eco-scrittore elencherei autori come Moravia, Calvino o Bassani.
-E, a proposito di romanzieri, cosa pensa del suo concittadino Aldo Busi?
Molti anni fa il capo redattore dell’Adelphi, il dottor Bertolucci, mi disse di conoscere un ragazzo che portava su il caffè, e che si chiamava Busi. Era un aspirante narratore. Gli ha fatto riscrivere non so quante volte il suo primo lavoro. L’opera di Busi non l’ho letta. L’ho visto talvolta in televisione e non si può certo dire che non sia un personaggio esuberante. Una volta ha conversato di sfuggita con mio figlio. Parlarono dei rapporti dei figli con i padri.
-E qual è il suo rapporto di padre?
E’ un po’ quello che intercorre tra la filosofia e l’arte. Mio figlio Federico è uno scultore. Il Vaticano alcuni anni fa gli ha affidato il compito di fare le medaglie per i capi di stato, per dirle, un po’ goffamente, di che livello sia.
-Torniamo alla filosofia. In Italia lei ha molti seguaci?
Ho molti discepoli di grande valore e ai vertici della carriera accademica. Ritengono ancora oggi che non si possa prescindere dal mio discorso filosofico. Certo, anche altri, che non la pensano come me, ritengono che non si possa prescindere dal mio pensiero. Direi quindi che i miei allievi si differenziano nel modo in cui tengono conto del mio discorso. Presentano istanze speculative che non sono presenti negli altri. Ad esempio ritengono fondamentale la riflessione sul senso dell’incontrovertibilità della verità, sul senso del rapporto tra verità e crisi della verità. Questo è presente in tutti i miei allievi. Se dal loro punto di vista non si può prescindere dal mio discorso, è evidente, però, che non sono totalmente d’accordo con esso. Del resto vorrei sapere quale pensatore – a cominciare (si parva licet…) da Gesù Cristo – ha tutti i propri discepoli “totalmente” d’accordo con lui. Certo, la Chiesa vuol essere “totalmente” d’accordo con Gesù, ma secondo molti non lo è, e altri cristiani non lo sono (ho un’altissima stima di Gesù come pensatore. Mi spiace che lo si pensi poco come filosofo. Eppure è grande la sua idea che la verità, per essere tale, deve essere espressa da Dio, e in quanto pronunciata deve essere parola sonante, carnale, e quindi espressa da un Dio incarnato).
-Di solito la coerenza tra dottrina e vita era considerata dai greci un elemento di credibilità. Anche per lei è così? E se sì, come applica nella vita di tutti i giorni la sua dottrina?
La critica della pratica non può trasformarsi nel proposito di mettere in pratica la verità. Se la verità implica la critica del progetto di dominazione delle cose, progetto presente in ogni pratica, dal gesto più caritatevole di San Francesco allo sterminio di Aushwitz, allora il proposito di far sì che l’individuo sia illuminato dalla verità è un circolo quadrato. Se e poiché l’individuo è l’incarnazione della volontà di trasformare il mondo, ossia della persuasione che le cose possono diventare altro e, essendo diventate altro, essere altro – perché è questo il punto -, e che quindi ci sia nel risultato l’esser altro da parte di qualcosa, il non essere ciò che essa è, allora la riflessione sulla pratica è una critica della pratica (la Follia è appunto credere che le cose siano ciò che esse non sono). Perciò è una critica del progetto (presente non solo nella tradizione filosofica) che la verità illumini l’individuo. Siamo gettati nell’errore. “Gettati” però non nel senso in cui intende Heidegger. Heidegger infatti crede molto nella pratica. In Heidegger il concetto di “decisione” è essenziale. Essere gettati nella pratica significa essere gettati nell’Errore, cioè nella Follia. Quindi è impossibile darsi da fare per uscire dall’Errore. Solo il destino può liberare da esso. La liberazione non è opera di un individuo o di un gruppo sociale, di un demiurgo, di un Dio: è opera della necessità che è presente nella storia, nelle vicende politiche.
-Esiste dunque un livello del suo discorso applicabile alla politica. Se lei fosse un politico cosa farebbe?
Il fenomeno dell’immigrazione è, ad esempio, molto pericoloso. Noi popoli privilegiati corriamo il rischio di fare la fine di certe imbarcazioni alle quali molti si vogliono aggrappare, e che vanno a fondo. Questo non significa che la struttura tecnologica vada a fondo, ma che l’apparato scientifico-tecnologico è in grado di operare “ricambi” di “materiale umano” al proprio interno. Il pericolo è per l’etnia bianca, la quale verrà progressivamente defenestrata. Questo discorso non è razzista: è una constatazione. Razzista è chi vede nell’appartenenza ad una certa razza un valore. Io dico solo che l’immigrazione emarginerà le popolazioni occidentali la cui gioventù si va sempre più imbarbarendo nella dipendenza dalla televisione, dai videogiochi, dalla droga, dagli agi, eccetera, e ha contro tipi umani sempre più numerosi che, ad esempio, fanno saltare in aria se stessi pur di far saltare in aria il nemico. Il nostro tipo umano occidentale è incomparabilmente più fragile  rispetto a quello dell’immigrato. Un politico che dica all’elettorato euro-occidentale: “A me non importa niente che tu te ne vada alla malora” non è un politico. Quindi, se io fossi un politico, è ovvio che lavorerei per la sopravvivenza della popolazione attualmente maggioritaria. Ma, questo è il punto, io non accetterei mai di essere un politico.
-Perché?
Perché ad un filosofo si addicono le attività politiche – direbbe Aristotele – di tipo “architettonico”. Ma più sono “architettoniche” più sono alte: ed è chiaro che non mi propongono di diventare presidente della repubblica! Fare politica rappresenterebbe inoltre l’abbandono dei miei interessi più autentici e profondi. L’impegno politico accentua la contraddizione col pensiero. Il pensiero autentico dice che cosa è la pratica. La politica accentua la volontà di potenza della pratica, o almeno la rende molto più visibile. Ma la pratica, l’azione non ha verità. Non si può non agire: è impossibile saltare al di fuori dalla propria ombra. Ma altro è voler saltare al di fuori dell’agire con l’agire; altro è agire prendendo le distanze dall’agire, conoscendo cioè la negatività dell’agire. L’agire che non ha questa consapevolezza è erede del fanatismo, dell’ingenuità, del fariseismo. L’agire porta alla progressiva dominazione della tecnica. Chi non capisce l’inevitabilità di questa dominazione o si illude di rifarsi ai valori del passato – paradossalmente l’ingenuità delle sinistre mondiali -, o si illude di enfatizzare la tecnica dimenticando la tradizione – paradossalmente l’ingenuità delle destre mondiali -, e così lavora scavandosi la terra sotto i piedi. E’ al di fuori della Grande Politica. La Grande Politica capisce l’inevitabilità della dominazione della tecnica, e cioè l’impossibilità che la tecnica possa risolvere i problemi dell’uomo dimenticando – come accade soprattutto nella cultura angloamericana – il modo in cui essi sono stati risolti nel passato, ossia dimenticando il passato. Se ci si vuole allontanare dal passato si deve averlo ben presente. D’altra parte la Grande Politica vuole che il passato non si illuda, come si illude il marxismo, di dominare la tecnica. La Grande Politica progetta in modo non contraddittorio rispetto alla tendenza fondamentale del nostro tempo. Non pone limiti alla sperimentazione scientifica. Porre dei limiti significa credere che siano limiti inviolabili. E cosa significa limite inviolabile? L’inviolabilità del limite è il cavallo di battaglia della grande tradizione filosofica. Essa è il divino. Ma tutto ciò che ispirandosi al passato pone dei limiti alla tecnica agisce contro ciò che è destinato ad accadere.
-Quindi la morale, che si ispira al passato, è anacronistica?
Occorre analizzarne l’origine. Politica e morale, per la civiltà occidentale, sono sorelle. Che cosa accade all’inizio della tradizione dell’Occidente? Accade che rispetto all’angoscia provocata dal divenire del mondo si va alla ricerca del rimedio. Delle due grandi forme di rimedio, la prima è il pensiero filosofico, che avvolge il divenire in un ordine eterno e necessario, divino. La seconda forma di rimedio è la tecnica. Politica e morale, dunque, che cosa sono state all’inizio della storia dell’Occidente? All’inizio si pensa di poter sopravvivere solo adeguandosi alle Leggi immutabili della realtà. Quando è l’individuo ad adeguarsi, allora esiste l’agire morale. Ma un individuo può essere morale solo in un ordinamento politico dove esistano buone leggi. Se invece è la polis ad adeguarsi a quelle Leggi, cioè all’Ordinamento divino, allora esiste l’agire politico. Quando prima parlavamo dell’essenza della filosofia contemporanea, dicevamo che essa mostra l’impossibilità della tradizione occidentale, ossia l’impossibilità di quell’Ordinamento adeguandosi al quale si produce la vita morale e la vita politica. Quindi la crisi di tale Ordinamento è la crisi della morale e della politica. Non è che oggi non esistano più problemi morali e problemi politici; ma oggi la soluzione di simili problemi non è più operata in senso morale ed in senso politico, bensì in senso tecnologico. Va emergendo una legislazione del mondo che va soppiantando la legislazione morale e politica dei problemi morali e politici.
-Quindi oggi è insensato parlare di responsabilità e irresponsabilità?
Direi di sì. I popoli stanno assestandosi non secondo la legislazione etica-politica ma secondo quella tecnologica. Non vorrei però essere frainteso. Se cade la pioggia non la diciamo eticamente responsabile, però apriamo l’ombrello. Che l’idea di responsabilità etica sia gravemente compromessa, non significa che si debba adottare un comportamento di indifferenza nei confronti di ciò che è oggettivamente dannoso. Anche questo “dovere” sarebbe un atteggiamento “morale”. Questo discorso si riferisce ad un concetto “alto” di responsabilità. Chi crede di essere un centro di coscienza, libero, capace di trasformare il mondo in modo da far diventare altro gli essenti da quello che sono, è nella Follia. In questo senso non ha verità il concetto di responsabilità individuale o sociale. Esiste però anche il concetto meno “alto” di responsabilità dove esistono responsabilità individuali e sociali giuridicamente perseguibili. Un conto però è riconoscere questo tipo di responsabilità penali, un conto è fidarsi dei “fatti”, delle “prove” che hanno portato ad una condanna o ad una assoluzione. Fidarsi troppo dei “fatti” significa trascurare tutta l’epistemologia contemporanea. E ciò non vale solo per i fatti giuridici ma anche, ad esempio, per quelli giornalistici. A questo livello di responsabilità l’irresponsabile è chi non avverte la presenza del dannoso e del non dannoso. “Oggettivo” non è però il dannoso in quanto tale. Il “dato oggettivo” è che un evento, ad esempio un reato, è interpretato come dannoso. E’ un “dato” la convinzione che qualcosa sia dannoso, non l’evento considerato dannoso. E’ opportuno ribadire che oggi i popoli stanno assestandosi non secondo la legislazione etica-politica ma secondo quella tecnologica. Quindi chi è spaventato dall’ingerenza di questa o di quella morale nella politica crede a torto che non sia in atto questo processo di distruzione inevitabile del passato. Ha senso quindi lamentarsi dell’ingerenza della Chiesa nella politica italiana come fanno i laici? No, lamentarsi è sensato solo di fronte ad un pericolo reale.
-Eppure oggi molti partiti si dicono cattolici o tendono a dialogare col mondo cattolico…
Certo. Ma tutto si gioca su un equivoco di fondo. Capitalismo e cristianesimo sono incompatibili come sono incompatibili democrazia e cristianesimo. La sintonia è soltanto apparente, superficiale. Che cosa significa capitalismo? Avere come scopo il profitto e non il bene comune. Per la Chiesa il profitto deve avere come scopo il bene comune della società. La Chiesa chiede al capitalismo qualcosa di altrettanto radicale di quello che al capitalismo chiedeva al comunismo. Certo, la Chiesa si è alleata con il capitalismo contro il comunismo. Ma la dottrina della Chiesa è sempre stata coerente. E’ una dottrina che risale soprattutto a San Tommaso ed è tuttora ribadita nei documenti ufficiali. La Chiesa non può dire che la ricchezza ha come scopo il godimento terreno. La Chiesa ha combattuto il comunismo perché anch’esso assumeva come scopo qualcosa di diverso dal bene comune inteso in senso cristiano; e per lo stesso motivo combatte il capitalismo. La Chiesa si contrappone allo spirito del nostro tempo che coincide con l’impossibilità di tener ferma la tradizione. La crisi autentica della tradizione è quella che mostra l’inevitabile crisi del pensiero cattolico.
-Ma la Chiesa ha il diritto di intervenire nella vita politica italiana?
Alla fine di aprile ho scritto un articolo dove dicevo che in base alla Costituzione italiana la Chiesa ha tutto il diritto di esigere che la repubblica italiana promulghi leggi cattoliche. Allora è intervenuto il professor Della Torre, giurista, il quale ha ricordato su Avvenire che c’è stata la revisione del governo Craxi dei Patti Lateranensi. Con tale modifica lo stato italiano ha deciso di non considerarsi più cattolico. Quindi la Chiesa non può più esigere da esso leggi cattoliche. La mia risposta a Della Torre è stata la seguente. Quando lo stato italiano dice “io adesso sono laico” non sta modificando i Patti Lateranensi, li sta distruggendo. I Patti Lateranensi volevano dire: lo stato italiano riconosce la Chiesa come stato sovrano, sebbene ridotto ai minimi termini (la città del Vaticano); in cambio lo stato italiano riconosce di essere cattolico. Ma se ora afferma di essere laico non sta modificando i Patti Lateranensi: ripeto, li sta distruggendo. Ora, nella seconda parte del secondo comma dell’articolo 7 della Costituzione si dice che non c’è bisogno di una revisione del testo costituzionale qualora i Patti Lateranensi siano modificati. Modificati – attenzione – non rovesciati come è successo con gli accordi del 1984. Con tali accordi si è quindi resa necessaria una modifica del testo costituzionale, che però non c’è stata. Perciò ne vien fuori l’incostituzionalità della revisione promossa dal governo Craxi. Ma se quell’accordo del 1984 è incostituzionale allora resta in vigore l’essenza dei Patti Lateranensi che dichiarano cattolico lo stato italiano. Ma se il nostro stato è cattolico la Chiesa  fa bene a chiedergli leggi cattoliche.
-La Chiesa è però critica non solo nei confronti di leggi non cattoliche. C’è anche la sua critica nei confronti di una democrazia ridotta a puro formalismo. Ma se la democrazia contemporanea è innanzitutto volontà di compromesso – vedi i paesi anglosassoni -, la critica della Chiesa a una democrazia intesa come violenza della maggioranza sulla minoranza non perde di significato?
Nei paesi anglosassoni la democrazia è legata a certe leggi non scritte che vengono sentite come parti integranti della democrazia. Però esse si riferiscono a certi grandi valori che a loro volta sono in crisi. E’ vero che la consuetudine dei popoli anglosassoni è quella che fa vivere una democrazia legata a simili valori. Ma è legata solo dalla legge, essendo quei valori la foglia secca che ancora sta attaccata al ramo prima del colpo di vento. Se invece guardiamo a ciò che è la democrazia nella sua essenza, allora  essa è una procedura formale. La democrazia non dice: “la verità è questa piuttosto che quest’altra”. Thomas Jefferson aveva tolto la religione dalla vita pubblica, più recentemente si vuol togliere anche ogni influenza della filosofia. Come procedura formale la democrazia afferma di essere indifferente ai contenuti che le vengono messi dentro. Allora capisco la Chiesa che critica questa democrazia. C’è un orientamento democratico oggi dominante al quale va bene la maggioranza in quanto tale: sia una maggioranza che dica bianco come una maggioranza che dica nero. E’ vero che esistono valori anticostituzionali. Ma nemmeno la Costituzione è un assoluto immodificabile: la maggioranza potrebbe anche modificarla. In questo quadro la democrazia resta una procedura formale, ossia quella “libertà senza verità” che la Chiesa non può accettare.
-Per questo lei ha affermato che anche Norberto Bobbio è alla fine costretto ad assumere la democrazia come fede, non potendo cioè essa appoggiarsi a nient’altro che a se stessa?
Sì, ma questo è vero solo con l’avvento e nell’orizzonte del pensiero contemporaneo. In epoca greca infatti esisteva la connessione della democrazia con l’ontologia, l’estetica, la metafisica e la teologia. Mentre oggi la democrazia è ridotta ad un puro atto di fede. Norberto Bobbio deve riconoscerlo. Certo, la democrazia moderna è quella fede che, come diceva Luigi Einaudi, impedisce che invece di contare le teste le si rompa. Ma è pur sempre una fede. E la fede, purtroppo, sta anche al fondamento della volontà che porta a rompere le teste.

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