
“Be’, gli inglesi hanno appena deciso di controllare il flusso di immigrazione dai paesi del Commonwealth, giusto? Vogliono che la gente se ne stia a casa propria. L’ironia della sorte è che noi membri del Commonwealth non possiamo impedire ai cittadini britannici di affluire nei nostri paesi”
(Chimamanda Ngozi Adichie, “Metà di un sole giallo”, La Repubblica-L’Espresso, 2018, pagina 104)
“In altre parole, per Londra il mercato deve essere unico, ma le regole, quando si applicano al Regno Unito, devono essere britanniche. Se accettassimo queste condizioni la Gran Bretagna, dopo essere uscita dall’Unione europea, vi rientrerebbe come un cavallo di Troia”
(Sergio Romano, Il Corriere della sera, domenica 09/02/2020, Esteri, p. 13)
Lo spettacolo di alcuni cafoni britannici che se la prendono con un artista di strada in nome della Brexit non è stato un gran bel vedere (https://www.adnkronos.com/fatti/esteri/2020/02/01/brexit-gentlemen-contro-artista-strada-giornalista-italiano-interviene-video_CS00aWL6ITun5kFMmE1YkN.html)
Sia di insegnamento a coloro che ritengono che il Regno Unito – o, per meglio dire, l’Inghilterra – sia stato patria di civiltà.
Chi scrive non ha mai pensato che l’Inghilterra sia un paese che abbia da insegnare molto a chicchessia.
Qualcosa, qualcosina, tutto qua, come le altre nazioni europee del resto, soprattutto quando si tratta di politica. Per quanto riguarda l’arte e la scienza, è un altro discorso: ma la politica, signori, davvero crediamo che ci sia un paese che si sia distinto dagli altri constatando quanto essa, la politica voglio dire, sia sempre stata il circo dell’ipocrisia?
Ora l’Inghilterra populista, con personaggi che, a disagio con se stessi per motivi oggettivi, si fanno portavoce di una ormai fantomatica potenza britannica che vorrebbero incarnare – penso a Nigel Farage, onestamente inadeguato per via del suo standing tutt’altro che affascinante (assomiglia al portinaio di casa mia, per dirla tutta), o al premier Johnson, speranzoso di diventare il Churchill del ventunesimo secolo, toccandogli di assomigliare piuttosto ad un giocatore di rugby un po’ bolso -, ora l’Inghilterra populista, dicevo, si aggrappa a simili personaggi, e vive di finanza e di industrie che, in mano allo straniero per di più, danno lavoro ad isolani sempre meno contenti.
Basti pensare al recente, sobrio ma anche discutibile film di Loach, “Sorry, we missed you”, che non ha posto l’accento su quello che è il carattere nazionale inglese, facendo assomigliare una famiglia di Newcastle ad una qualsiasi altra europea. Ma io non credo che le cose stiano esattamente così, sebbene alcuni potrebbero pensare che la forza del film consista proprio in questo, nel mostrare una situazione di difficoltà familiare e sociale in cui ogni europeo si possa riconoscere.
Si dovrebbe aggiungere, infatti, che agli inglesi integrati (per di più bianchi) si è sempre pensato un po’ più che agli altri, in un impero (a lungo) razzista come quello britannico: ora che non succede più come prima, gli inglesi (autoproclamatisi) di serie A, innanzitutto per il colore della pelle – è inutile che ci giriamo attorno -, vanno fuori di testa.
E quando erano i padroni di un impero? Quando massacravano e torturavano i combattenti per la libertà di tanti popoli in giro per il mondo? Gli inglesi a causa dell’Ue si sono sentiti invasi quando loro non potevano reagire invadendo a propria volta, come ai bei tempi andati, allorché il concetto britannico di invasione era a senso unico.
E qual è stata la conseguenza di tale fantomatica invasione ai loro danni? Che se ne vanno dall’Europa, gli inglesi, dopo che hanno cercato in tutti i modi di bloccarne il funzionamento. Infatti, se l’Europa non ha fornito un’ottima prova di sé, è perché gli inglesi in persona sono stati tra i primi responsabili, non ce lo dimentichiamo mai.
Se ne vadano pure i cari inglesi (pro Brexit), quindi: non li rimpiangeremo, anche se mi dispiace per gli altri. Chi se ne importa di loro? Chi credono di essere? Perbacco, devono stare sempre al centro dell’attenzione! Davvero vogliamo perdere tempo dietro ad un popolo formato (in parte) di gente convinta di essere “speciale” (“eccezionale”, direi)? Loro con la loro strana “regina”, persuasa che sia un onore farsi incontrare da ben note personalità internazionali della politica, dello spettacolo, della scienza o della cultura che, al contrario di lei, la propria posizione se la sono sudata.
Vogliamo dirla tutta? Vogliamo dire che, in condizioni normali, la cara signora farebbe al massimo la postina, la lattaia o la contadina con le oche in qualche zona sperduta del suo piccolo regno? Ma la “regina” piace tanto ai parrucchieri ed ai commessi inglesi – intervistati pure da me a tal proposito nei pub di Milano -, e quindi va bene così, per carità. Nessuna gliela tocca, la “regina”. E neppure la Brexit, a cui parrucchieri e commessi hanno dato un contributo fondamentale, naturalmente. Sono soprattutto loro, infatti che temono l’immigrazione a bassa professionalità dall’Est Europa o dai paesi extraeuropei, non gli ingegneri, gli architetti, i medici, gli economisti o i letterati.
Tornando agli altri personaggi “speciali” dell’isoletta britannica, Johnson è solo, politicamente parlando, un opportunista, mentre Farage è soltanto uno che cerca disperatamente di incarnare il perfetto inglese, ossia uno stereotipo, con la sua mano perennemente in tasca quando parla atteggiandosi a grande oratore: eppure non ce la fa proprio, non ce la fa neppure ad imitare una maschera, il caro Farage.
Dire che sia un pagliaccio (politico) non sarebbe corretto: semplicemente non è nulla, non riesce ad essere pienamente nulla, neppure in senso negativo. Farage è, politicamente parlando, il nulla. La dimostrazione lampante che il nostro brillante pensatore Emanuele Severino, scomparso di recente, sbagliava con tutto il suo discorso filosofico legato alla Follia dell’Occidente: Farage non pone alcuna contraddizione al suo venire “da” e andare “nel” nulla, come sosterrebbe Severino, perché è chiaramente nulla anche durante tale passaggio, è sempre stato, è e sarà sempre nulla, è un ente-nulla, e quindi è la prova lampante che il nulla c’è ed è eternamente tale, altroché, e follia è quella di chi crede, come Severino, che il nulla non esista, e che eterno sia ciò che invece risulterebbe nulla al pensiero dell’Occidente fatte certe premesse, ma che nulla non è.
Il nulla (politico) esiste, ripeto, e si chiama Nigel Farage. Certo, un “nulla petulante e irritante” ogni volta che apre bocca, ma lui lo fa apposta ad apparire così, gli piace infastidire perché sa che è l’unico modo per distinguersi, non spiccando in nient’altro a livello politico, a parte, ripeto, che per la sua nullità. E, a proposito di nulla, non mi stupisco che ad uno come lui si siano affiancati i Cinque stelle di Beppe Grillo, “nulleschi” esattamente quanto lui, a partire dal loro fondatore (che Farage, non a caso, ha definito un “genio”- del nulla, aggiungo io -).
A proposito di gente senza qualità, gli stessi aristocratici inglesi si sforzano di risultare eleganti, quasi quanto il povero Farage: ma è, la loro, una eleganza leziosa, sbandierata, forzata, da barbari leccati quali sono, ben lontana da quella vera, naturale, che si trova in nobiltà ben più antiche e credibili, e antropologicamente fondate direi, come quella partenopea (restando in Italia, cioè all’interno di un paese che, al contrario di quello inglese, costituisce davvero una civiltà, per di più millenaria).
Tra gli inglesi di tutti i livelli sociali si possono trovare masse di violenti e di barbari. Gli inglesi (molti, troppi) sono violenti per natura, direbbe un loro raffinato connazionale, lo scrittore Jonathan Coe. Quando hanno voluto nascondere gli hooligans come la polvere sotto il tappeto, ciò non ha impedito che i più accorti tra noi abbiano avuto ben presente la verità, ossia che gli hooligans altro non erano, e sono, che degli inglesi naturali, degli inglesi, cioè, che non vogliono fingere: quelli che secoli fa si pulivano il deretano con foglie e terra prima che i latini portassero un po’ di civiltà sino al Vallo di Adriano – e lo dico sulla base di criteri che in realtà non sono i miei, sia chiaro, ma i loro, quelli degli inglesi che, secoli dopo, avrebbero “esportato”, con la stessa spocchia dei latini, la civiltà altrove: non la loro “civiltà”, a questo punto è evidente, ma quella europea da cui essi stessi erano stati toccati per ultimi, un po’ di secoli prima, e a cui alla fine hanno contribuito attivamente (esattamente come ora stanno facendo molti popoli extraeuropei considerati inferiori dagli inglesi dell’impero, mentre ai britannici nessuno aveva dato dell’inferiore anche quando, di fatto, lo potevano sembrare) -.
Lo so, sto esagerando e sono volutamente sgradevole, ma ogni tanto ci vuole, soprattutto per aiutare gli inglesi a scendere da un piedistallo su cui si sono posti da soli.
Del resto, il mio è un articolo volutamente provocatorio. Ma è utile scrivere pezzi del genere, io credo, soprattutto per chi ha bisogno di aprire gli occhi. E gli inglesi, con la loro ridicola Brexit, li devono aprire bene, gli occhi. Anzi, li devono sgranare.
Torniamo quindi alle nostre cattiverie, torniamo ai molti, troppi inglesi barbari e violenti.
Poveretti: sono stati così smaniosi di recuperare secoli di barbarie che, quando sono riusciti a ottenere il loro posto al sole, quel posto che altri popoli prima di loro avevano conquistato senza tante sceneggiate, senza tanti strombazzamenti, hanno dovuto costruire tutta una fenomenologia volta a convincere se stessi e gli altri che loro non fossero ritardatari, bensì diversi. Diversi perché erano arrivati in ritardo? Ma era proprio la loro condizione di partenza di minorità gravissima, unita al grande ritardo della loro uscita dalle tenebre, a causare tale smania, al limite della nevrosi, di autoconvincersi di esserlo davvero, diversi.
E in effetti lo erano, ma in negativo, non in positivo, secondo certi parametri. E, non potendo dimostrare coi fatti di essere superiori agli altri europei, dai quali venivano spesso e volentieri presi a calci nel sedere, dovettero, in maniera furba – occorre riconoscerlo -, tentare di consolidare altrove il loro posto al sole. In Europa non era possibile, troppo forte e aggressiva come era (non mi risulta, infatti, che gli inglesi abbiano mai invaso, o colonizzato in maniera permanente, il “Vecchio continente” – o sbaglio? -: le davano e le prendevano, tutto qua), e quindi dovettero puntare su terre vastissime popolate da genti deboli sul piano militare, da vigliacchi quali erano quindi, a ben guardare (come gli spagnoli prima di loro, sia chiaro, o gli olandesi o i portoghesi, o gli italiani stessi, bravissimi ad usare per primi aerei militari e gas chimici per uccidere esseri umani sul suolo africano).
Una grande furbizia, quella degli inglesi, davvero.
Del resto, ho sempre pensato che la minore proiezione dei francesi sul mondo sia (quasi) sempre stata dovuta al fatto che i nostri cari “cugini” abbiano cercato, molto più degli inglesi, un posto al sole nel “Vecchio continente” per vari motivi, in ciò mostrando maggior coraggio (ma pure molta, troppa aggressività ed avidità, unite però a minore realismo o senso pratico, etc): essere re dell’India a un Napoleone sarebbe sembrato poca cosa, se poteva esserlo d’Italia o, meglio ancora, d’Europa.
Ed insomma, la vera eccezione (nel bene e nel male) fu lui, Napoleone, non l’Inghilterra, la quale, peraltro, seppe gestire assai bene il proprio isolamento geografico dall’Europa, saccheggiando il resto del mondo mentre nel “Vecchio continente” si consumavano continue guerre interne tra stati spesso confinanti. In certo modo, l’Inghilterra si specializzò in questioni extraeuropee ritenendole, giustamente, molto meno pericolose e più remunerative, ma questa la considererei una “particolarità”, non una “eccezionalità”. E’ sempre stato difficile, però, far accettare una riflessione del genere agli inglesi, i quali portano in risposta l’esempio di Waterloo, dimenticando che senza l’arrivo sul campo di battaglia dei soliti prussiani – determinanti anche nella Guerra dei sette anni – sarebbero stati spacciati (e dimenticando che Napoleone stava male quel giorno – causa emorroidi, pare -).
Vivaddio, ora con la Brexit è diventato possibile, ora è diventato possibile dire ai quattro venti che “l’eccezionalità britannica” è una pagliacciata. Lo è sempre stata, in effetti. Era, tale eccezionalità, credibile solo in un sistema di valori totalmente campato in aria (a stretto giro la questione dell’Inghilterra “patria di libertà”), un sistema, cioè, costruito a tavolino dai diretti interessati quando si erano trovati in posizione di vantaggio.
Vogliono molti, troppi signori inglesi continuare a fare i pagliacci? Non sarà un atteggiamento condiscendente nei confronti dell’Inghilterra da parte dell’Unione europea ad aiutarli a rendersi conto di quanto pagliacci siano risultati con una simile, fantomatica “eccezionalità” – che nasce dal loro iniziale complesso di inferiorità -, e con una simile, incomprensibile Brexit, considerati tutti i vantaggi che erano riusciti a strappare rispetto agli altri paesi europei (a proposito: come mai glieli abbiamo concessi? E’ in casi del genere che i politici europei del continente hanno mostrato quanto fossero, e siano, imbelli).
Se ne vadano pure gli inglesi (pro Brexit), quindi, e chiudiamogli bene dietro la porta: anzi, spranghiamola rumorosamente. Bam!
Aaaa, finalmente! Statevene nella vostra isoletta umida e cupa, cari inglesi (pro Brexit). Gli inglesi… Già, quelli che ci hanno voluto far bere la storiella di quanto fossero, e siano, “patria di libertà” (la loro, non quella degli altri).
Ed adesso spingiamoci sino al fondo della nostra cattiveria verso molti, troppi inglesi ed i loro limiti, limiti che la Brexit ha iniziato a portare a galla, in tutta la loro enormità.
Tenetevi forte.
Io sostengo da tempo che quando c’è stato uno scontro tra Hitler ed il cosiddetto “Impero britannico” è avvenuto uno scontro tra chi teorizzava la superiorità di una razza su un’altra, in attesa di metterla (bestialmente, sia chiaro, e in maniera tribale) in pratica e chi l’aveva già applicata: ovviamente, questo non viene detto perché un conto è essere razzisti con gli africani o gli asiatici, un conto con altri europei (compresi gli ebrei, che, pur di lontana origine semita, sono europeissimi, ci tengo a precisarlo, ma con i pro ed i contro di tale condizione, come il caso di Israele mostra ampiamente: chi mi legge o ascolta i video del mio blog ricorderà che per me è tutta l’Europa ad essere il continente più aggressivo della storia. Francia, Portogallo, Olanda, Spagna, eccetera, e ora, ebbene sì, anche Israele. Il radicale Pannella non aveva torto a voler far entrare il paese ebraico nella Ue, ossia un paese “europeo, troppo europeo”, direi parafrasando Nietzsche).
Qui è avvenuto il vero errore di Hitler, prendersela con altri europei, e non mi riferisco, naturalmente, solo agli ebrei. Peccato che questo, il fatto cioè che alla fine abbia perso il razzismo nazista, ne abbia rafforzato uno per certi versi più ipocrita, subdolo e strisciante rispetto ad esso, e questo perché meno strillato e ideologizzato, e, soprattutto, condotto verso “le persone giuste” a livello planetario, e destinato a rimanere nell’aria contro tutte le cosiddette “razze” non europee anche ben dopo la Seconda Guerra Mondiale, sino ai nostri giorni.
Un discorso del genere, ovviamente, vale pure per gli Stati Uniti d’America, patria di libertà solo a chiacchiere, naturalmente, e portatori di un bestiale razzismo endogeno di cui dovrebbero vergognarsi da qui alla fine dei tempi (altro che Trump!) come i tedeschi nazisti, e capire che, solo per questo, non costituiscono nessuna eccezione, proprio nessuna (se non in negativo, naturalmente), esattamente come prima non la rappresentavano gli inglesi, in tal senso “bestie” quanto gli “americani”. E talvolta le “bestie”, nella loro bestialità, “si prendono” tra loro, come si suol dire: molti non sanno che l’ultima, più sanguinosa ed inutile battaglia tra statunitensi e britannici, quella di New Orleans del 1812, avvenne quando ormai era stato firmato l’ennesimo trattato di pace tra le due parti (!), quello di Gand. Duemila uomini morti inutilmente, se mai le morti in guerra hanno avuto qualche utilità…
Il comportamento di inglesi e statunitensi-anglosassoni (in primis) mi fa ipotizzare – ancora a proposito di provocazioni – che ci sia un problema legato a quel tipo di etnia autodefinitasi orgogliosamente “wasp”, la quale, come prima era riuscita a far pensare i neri nella maniera in cui essi volevano che pensassero generando in loro un servilismo innanzitutto psicologico profondo (sia nell'”Impero britannico” che negli “States” – si pensi, ad esempio, a “Ragazzo negro” di Richard Wright, uno dei maggiori romanzi esistenzialisti del Novecento, il cui titolo più azzeccato, però, sarebbe stato “Lo straniero”, essendo il protagonista di colore un disadattato rispetto ai bianchi, sì, ma anche rispetto ai neri forgiati dal razzismo dei bianchi -): l’etnia anglosassone, dicevo, è riuscita ad ottenere qualcosa di simile con gli altri sconfitti, europei e non, i quali sono spesso tuttora convinti che statunitensi e inglesi abbiano rappresentato, e rappresentino, una civiltà superiore in qualche modo, e siano dei paradisi in terra per tutti coloro che abbiano la ventura di vivere sotto la loro bandiera (addirittura una “bandiera di libertà” come il simpatico Berlusconi, raffinato esegeta della cultura dell’Occidente, disse una volta ad un altro profondo interprete di quella stessa cultura, George Bush junior, e in uno splendido inglese per di più: https://www.youtube.com/watch?v=RWa9U79-Yg0).
Io, naturalmente, non faccio parte di una simile, penosa parrocchia.
Se devo dirla tutta, non riesco a capire come si possa confrontare un paese certamente importante (nel bene e, ribadisco, nel tragicamente male) ma che è stato sulla “cresta dell’onda” solo per due secoli e mezzo come l’Inghilterra, con una civiltà millenaria come quella latina e italiana. Gli inglesi hanno creato un impero moderno che è stato l’unico a essere paragonabile a quello romano? Benissimo, ma se questo mi dovrebbe lusingare, in realtà dovrebbe prima agire al contrario, ossia lusingare gli inglesi, eppure anche così non mi sentirei soddisfatto, in quanto non sono mai stato un estimatore di un impero per certi versi importantissimo, sì, ma sanguinario, rozzo e estremamente ingiusto come quello romano (e sono in buona compagnia, mi pare, a partire almeno da Prudenzio per finire con Albert Camus). Ed era quello romano, cioè un impero di grossomodo duemila anni fa: che gli inglesi abbiano osato – “osato”, sì, è il verbo giusto – ripetere un’altra raccapricciante esperienza del genere in piena epoca moderna, ed anzi contemporanea, la dice lunga sulla pochezza reale della loro società e della loro cultura, nonché del loro endemico ritardo rispetto agli altri europei.
Gli inglesi ora ce l’hanno coi migranti che si trovano “a casa loro”, e tutti noi ci stupiamo quando ci sembra che esagerino.
Voglio dire: ci stupiamo come non facciamo quando le stesse scene di sciocca intolleranza, anche spicciola, capitano in Germania o in Italia, dato che tali paesi hanno visto l’affermazione di idee di destra estrema come il fascismo e il nazismo. Peccato, ripeto, che l'”impero britannico” si facesse portatore, nello stesso periodo del nazifascismo, di idee altrettanto “fasciste” verso centinaia di milioni (centinaia di milioni!) di persone conquistate per via di una superiorità tecnologica che nulla aveva a che vedere col coraggio o con la valenza a combattere dei britannici. Sappiamo tutti che se il Regno Unito non fosse stata difeso dal mare i nazisti l’avrebbero invaso ancora più velocemente di quanto fecero con la Francia, che possedeva all’epoca l’esercito più grande dell’Europa occidentale (comprendendo anche quello tedesco). Non sono solo ipotesi, le mie: l’esercito di “Sua Maestà” si trovava in gran parte in Francia quando i nazisti la attaccarono, ed i risultati della loro presenza sono stati mirabilmente raccontati nel film “Dunkerque”. Per dirla in due parole, furono cacciati a pedate in pochi giorni, e scapparono a gambe levate nella loro isola ben difesa solo dalla flotta (la loro arma più forte per motivi di controllo imperialista). Del resto, un film di mirabile retorica, questo “Dunkerque”, che fa apparire gli aguzzini britannici come dei campioni di libertà, e Churchill un grand’uomo e non l’uomo più ipocrita del suo tempo (quello che per anni aveva avuto parole d’elogio per un delinquente come Mussolini, tanto per dirne una, al di là del suo inguaribile e vigliacco imperialismo nel resto del mondo). Erano, più semplicemente, quello britannico e quello nazista, due imperialismi che si scontravano (come quello americano e giapponese in Asia ben prima di Pearl Harbour), con la differenza che uno, quello nazista, faceva la guerra in Europa, l’altro voleva un’Europa pacificata per poter meglio manovrare nel resto del pianeta sulla pelle di milioni di uomini da sfruttare sino al midollo, come i cugini americani facevano a propria volta con il popolo nero, che tenevano tra le catene dell’ignoranza e della povertà estreme, soprattutto al Sud (consiglio a tal proposito di leggere il lungo racconto autobiografico “Nero come me” dello psichiatra cattolico John Howard Griffin, pieno di scene di vita di persone di colore di ogni età che fanno stringere il cuore).
A furia di cercare rogne con popoli deboli del resto del mondo gli inglesi svilupparono l’abitudine a combattere, questo sì, ma ciò non significa che fossero, o siano, più coraggiosi di altri: degli italiani ad esempio, che un giorno, negli anni Ottanta, vennero insolentiti da un parlamentare inglese a tal proposito (al tempo della guerra delle Falkland, quando tale losco figuro, questo pagliaccio, si permise di dire che non c’era da preoccuparsi dato che gli argentini erano per lo più di origine italiana, e quindi vili), salvo poi non accettare la sfida a duello che gli venne lanciata da un nostro connazionale (della cosiddetta “famiglia reale” nostrana, ossia reale come la “regina” d’Inghilterra alias “la lattaia”, mi spiace doverlo ribadire in tale contesto), e questo a proposito di audacia britannica.
Occorre ripeterlo: gli inglesi vinsero fuori dall’Europa nel Novecento solo perché si scontrarono con popoli praticamente disarmati, e vinsero in Europa solo perché riuscirono a resistere, isolati dal mare e foraggiati dalle genti che sfruttavano fuori dal continente, ma per quanto riguarda un contrattacco degno di tale nome, ebbene, ci vollero gli statunitensi, a loro volta isolati dal mare, ed i sovietici per realizzarlo. Gli inglesi, insomma, sono stati molto fortunati, ed abili a sembrare quello che non erano, una potenza in grado di fare la differenza in Europa, cosa che invece fu alla portata dei francesi prima, con Napoleone, dei tedeschi poi, coi nazisti, e, infine, dei sovietici (nessuno dei quali, peraltro, rappresenta un modello a cui guardare, sia chiaro, neppure Napoleone, su cui ho già detto e scritto cosa penso altrove).
Il senso di superiorità degli inglesi è ancora una volta la manifestazione del senso di inferiorità posto sotto, del sentimento, cioè, circa la propria debolezza al confronto di altri europei, abituati come erano, gli inglesi dall’Ottocento in poi, a lottare ormai solo contro popoli disarmati e poco organizzati: ed è tale doppia consapevolezza, legate tra loro anche da un punto di vista morale, che giustifica a maggior ragione lo stato d’animo britannico. Il Regno Unito? L’ipocrisia fatta… nazione. Così mi vien da dire, soprattutto oggi, in tempo di Brexit.
Gli inglesi, insomma, approfittarono della forza altrui per parlare di una presa sull’Europa che in realtà non è mai stata nelle loro possibilità, e in essi, storicamente parlando, si trova tanto fascismo esogeno quanto ce n’è in tedeschi e italiani, ed anzi di più.
Ma ora che il fascismo non si può più dispiegare verso l’esterno, non come un tempo almeno, nulla toglie che potrà proiettarsi verso l’interno, in maniera endogena, come capitò nelle mani dei fratelli degli inglesi, ossia gli americani del Nord, contro un intero popolo, quello nero (dopo aver sterminato i cosiddetti “pellerossa”, naturalmente, genocidio di cui nessuno parla mai come si deve, e non si capisce perché: in America, quella dei bianchi di origine inglese in particolare era stata una invasione vera e propria, resa meno grave agli occhi degli europei dal fatto che non esistesse uno “Stato indiano” nel Nord del continente, ma tale situazione dovrebbe ingrandire, non ridimensionare, il nostro sgomento, dato che proprio lo stato moderno è all’origine delle guerre e del razzismo come lo conosciamo oggi, ed i nipotini della nazione inglese proprio questo crearono: guerre e ideologie razziste – contro i “pellerossa”, e poi contro i “negri” – a sostegno dei propri misfatti nel Nord America, e non solo là, purtroppo).
Sto esagerando? Forse. O forse no. Nel senso che come non ci sarà un nuovo fascismo in Italia nella vecchia forma, ma in una nuova sì, nulla lo esclude, allo stesso modo potrebbe capitare col fascismo inglese, a partire dal fatto, ripeto, di essere esso innanzitutto di tipo diverso rispetto alla sua applicazione, di essere cioè endogeno e non esogeno.
Infatti, proprio qui sta il punto: il fatto che gli inglesi, i vincitori delle due guerre mondiali grazie, e soltanto grazie, al sostegno degli americani (anzi, degli statunitensi, incominciamo a mettere i puntini sulle i), dei sovietici, ma anche delle masse di servi “non bianchi” provenienti dal cosiddetto “impero” britannico gettati a combattere per una patria che non era certo la loro, complicando ulteriormente, immagino, l’equilibrio psichico di tali soggetti presi tra due fuochi (quello rappresentato dall’odio, naturale, per gli inglesi e quello, indotto dalle circostanze, per i tedeschi), il fatto, ripeto, che gli inglesi non abbiano mai accettato di fare i conti con il proprio bestiale imperialismo, e che si siano sempre sentiti autorizzati a svilupparlo contro popoli cosiddetti inferiori, proprio questa rappresenta la vera ragione per cui io sono preoccupato dalla piega che potrebbero prendere le cose nel Regno Unito post Brexit, soprattutto se nel frattempo personaggi come Trump, cioè uomini furbissimi, sì, ma dal pensiero superficiale e dal fiato corto, e lontanissimi dal capire la complessità del reale, li spalleggiassero per un tornaconto immediato.
E non credo che aiuterà il fatto che tanti miliardari stranieri come gli indiani investano (spesso per ragioni poco chiare) in Inghilterra. Poco chiare (le ragioni) da un punto di vista fiscale e finanziario, certo, ma anche da uno psicologico, esistenziale: perché proprio Londra e non Singapore, ad esempio? Sono vittime, questi miliardari indiani, della Sindrome di Stoccolma? O piace loro, sotto sotto, essere semplicemente serviti e riveriti dagli ex padroni? Quale che sia la ragione, questi signori, miliardari indiani, arabi o indonesiani, potrebbero ottenere un pessimo risultato: quello di essere all’origine di quanto dicevo prima, ossia della storia che si ripete non nella forma, ma nella sostanza. Prendendo loro, cioè, il posto degli ebrei contro i quali il popolino europeo si rivoltò al massimo grado (anche solo) qualche decennio fa nel cuore del “Vecchio continente” (perché poi “vecchio”? Semplicemente perché gli altri continenti, come le Americhe o l’Oceania, sono “nati” quando sono stati “visti” e occupati dagli europei? Il linguaggio, spesso, esprime il razzismo degli occidentali in una maniera strisciante e profonda… Tutti noi lo sappiamo, ma non ci pensiamo mai abbastanza, e ci comportiamo un po’ come il filosofo irlandese Berkeley, per il quale le cose esistono solo se a guardarle c’è il soggetto giusto: lui lo faceva per sostenere l’esistenza di Dio – lo sguardo senza il quale non ci sarebbero le cose, infatti, è il suo -, noi, evidentemente, per sostenere l’esistenza dell’uomo-dio. Un’idea, quella dell’uomo-dio bianco, che si radicò al tal punto nelle popolazioni del mondo assoggettate che quando scoppiò la Prima Guerra Mondiale e bianchi e neri iniziarono a cadere assieme sotto i colpi delle baionette nemiche presso le trincee, non pochi tra i secondi si stupirono, avendo a lungo pensato che i primi fossero immortali, e iniziarono a dare segni di insofferenza contro il giogo imperialista: anche per tale motivo i capi britannici, psicologi per necessità, preferirono evitare guerre troppo impegnative per Londra, immagino).
Ecco, forse che tali miliardari potranno rappresentare ad un certo punto la molla scatenante della furia di masse impoverite e scontente nella piovosa e (sempre più) triste isoletta britannica? O tutto partirà, in maniera più scontata aggiungerei, dalle offese e dalle aggressioni degli inglesi “di serie A” agli inglesi-non inglesi, quelli di chiara origine straniera per l’aspetto o il nome, o ai migranti puri e semplici?
Non ci dimentichiamo che proprio quando sosteniamo che l’Inghilterra è stata patria della democrazia, proprio allora stiamo caricando non solo i governi, ma anche l’intero popolo britannico, dei pro e dei contro di tale situazione. I pro li conosciamo: i contro sono cosucce tipo una certa responsabilità nell’imperialismo razzista britannico, al punto che sarebbe, forse, più giusto parlare di “dermocrazia” britannica (o statunitense) se ci ponessimo da un punto di vista non eurocentrico – od occidentalocentrico -, bensì più generale. La democrazia britannica è, insomma, una delle grandi ipocrisie della storia (come quella ateniese, del resto, che però non era “dermocratica”): non bisogna aver letto saggisti come Kwame Nkrumah o Frantz Fanon per accorgersene. Sono sufficienti romanzieri come i nigeriani Chinua Achebe o Chimamanda Ngozi Adichie.
Non so, forse sono solo fantasie, le mie: ma al di là della Manica le cose non si stanno mettendo bene per tanti, checché ne dicano i nemici della Ue, e, ripeto, gli inglesi (pro Brexit in primis) non si sono mai guardati davvero allo specchio, non hanno mai visto la prepotenza, l’aggressività, il razzismo e il senso di superiorità malato e del tutto infondato che li ha contraddistinti negli ultimi due secoli e mezzo.
Poco tempo fa, in occasione di un anniversario, il cosiddetto “principe” d’Inghilterra, il povero Carlo, disse pubblicamente davanti alla madre di aver reso lui e il popolo orgogliosi di essere britannici: parole, queste, di una retorica sconcertante, come se la famiglia reale inglese non avesse contribuito a rendere il paese quello che è per alcuni aspetti importanti, ossia una vergogna per l’Europa e per il mondo, se l’Europa e il mondo riuscissero a uscire fuori dai parametri, alias paraocchi, concettuali che proprio gli anglosassoni, negli ultimi secoli, hanno contribuito a creare per nascondere dietro una cortina di fumo le proprie nefandezze. Bisogna riconoscere che in questo, e solo in questo, sono sempre stati dei campioni.
Non oso immaginare, infatti, quale conflitto interiore possa vivere un inglese anche di lontana origine africana, o asiatica, a sentire frasi tanto povere di profondità e di autocritica (storica, psicologica, sociale, economica, etc).
Aiutiamoli quindi a farlo, aiutiamo i poveri inglesi a guardarsi allo specchio, smettendo di pensare di essi, e degli statunitensi “di serie A”, quello che certa narrazione campata in aria è riuscita a ottenere nelle menti meno lucide del continente e del mondo, la narrazione per cui essi siano stati, e siano, amanti e sostenitori della libertà e della democrazia in generale, nonché fari di civiltà, ohibò.
Forse questo aiuterà gli inglesi a salvarsi da se stessi, e dalla loro “eccezionalità” delirante, e aiuterà noi ad evitare problemi seri con uno dei popoli più aggressivi, e colpevolmente, ostinatamente, ipocriti d’Europa, il cui panorama psichico ricco di contraddizioni mai risolte è all’origine di una Brexit incomprensibile e al limite della schizofrenia collettiva.
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