Lungo estratto dal mio libro sulla guerra, in stesura, intitolato “Dopo la Moskva”

Mentre la Russia continuava ad attaccare l’Ucraina, dall’altra parte del mondo la situazione si infiammava. Xi Jinping aveva ribadito al XX Congresso che la Cina avrebbe fatto tutto il necessario per riprendersi Taiwan. Sembrava del tutto indifferente al punto di vista dell’Occidente. Per lui, il modello liberaldemocratico non rappresentava affatto il punto più alto della cultura politica, anzi. Tanto è vero che per il giornalista francese Billeter, citato da Sergio Romano sul “Corriere della sera”, esisteva un documento numero 9 risalente al 2012, e dettato forse dallo stesso Xi Jinping, dove si diceva che ogni membro del partito ha il dovere di combattere  ovunque e sempre i valori occidentali (leggi: liberaldemocrazia). Del resto, il presidente cinese riteneva che, proprio grazie all’intervento poliziesco del Partito comunista, Hong Kong era tornata vivibile. C’era stato un esodo di professionisti ed imprenditori dall’ex colonia britannica, ma minore di quanto ci si sarebbe aspettato. In questo senso, Xi Jinping non aveva nulla di particolare da rimproverarsi, senonché era l’artefice dell’impoverimento della ricca città. Secondo alcuni, si trattava di un obiettivo voluto, nel senso che il presidente cinese intendeva sacrificare Hong Kong a vantaggio di Shangai, città tradizionalmente ricca e più facile da controllare dal parte del regime. Infatti, se il popolo dell’ex colonia britannica avesse continuato a rappresentare una spina nel fianco del potere assoluto del Partito a causa delle sue idee liberali, lo sarebbe stato con maggiore efficacia da una posizione di superiorità economica. In questo senso, Xi Jinping faceva bene a indebolire Hong Kong, che probabilmente rappresentava ai suoi occhi non solo un pericoloso esempio di democrazia reale per il resto della Cina, ma anche un modello altrettanto minaccioso di mercato libero che non intendeva vedere espandersi in tutto il suo gigantesco paese. Secondo molti, infatti, il presidente cinese non credeva nel mercato all’occidentale, che probabilmente vedeva come premessa per uno sviluppo del paese in senso democratico, esattamente come Putin. A poco a poco, si era fatto paladino di una politica economica dirigista i cui effetti avrebbero potuto risultare deleteri dopo dieci anni di sviluppo. Era un discorso, questo, che si poteva fare benissimo anche per la Russia, al punto che gli Usa non ritenevano più la Federazione un’economia capitalistica compiuta. Di conseguenza, presto sarebbe stata oggetto di dazi anti dumping. A dirla tutta, Pechino aveva già registrato una crescita modesta nell’anno in corso, e questo nonostante Xi Jinping fosse ancora convinto che entro il 2035 la Cina sarebbe diventato un paese a reddito medio-alto, ed entro il 2049 una “potenza guida in tutti gli aspetti”. Come si è già segnalato, l’America di Biden era cresciuta più della Cina, cosa che non accadeva dai lontanissimi anni Settanta. Probabilmente, Xi Jinping si era fatto condizionare dall’efficacia dell’intervento dello Stato cinese in tempo di crisi, prima finanziaria e poi legata al covid. Evidentemente, però, era pericoloso protrarre un simile intervento pubblico quando la crisi era, almeno in parte, superata.  Secondo alcuni, era proprio perché Xi Jinping non stava più ottenendo buoni risultati in campo economico che cercava di spostare l’attenzione su Taiwan, contro cui applicare la politica della tensione.  Non a caso, il presidente cinese aveva preso a parlare con sempre maggiore insistenza di grandi investimenti nelle forze armate. Evidentemente, lo scopo era utilizzare la crisi di Taiwan per sdoganare la strategia del riarmo che, in realtà, non sarebbe servita solo per riconquistare la piccola isola, ma per inaugurare una rinnovata politica di potenza. Tale strategia avrebbe giocato a favore dello sviluppo del nazionalismo mai sopito dei cinesi, e cioè di una potente leva da usare per il mantenimento del potere da parte di Xi Jinping. Infatti, rieletto per un quinquennio, il presidente cinese poteva covare ambizioni per il periodo successivo a quel terzo, eclatante mandato. Eclatante perché contraddiceva in pieno la vecchia dottrina del fondatore della Cina moderna, Deng. Il quale, pur responsabile dell’eccidio degli studenti a Tiennamen, era favorevole al potere collegiale per evitare gli errori del maoismo, oltreché all’apertura al mercato del sistema economico nazionale. Maestro in metodi mafiosi, Xi Jinping era stato abilissimo a sbarazzarsi dei suoi diretti avversari, estromettendoli dal Comitato centrale pur essendo membri del Politburo permanente. In quei giorni, fu memorabile il modo in cui l’ex presidente cinese Hu Jintao fu accompagnato fuori dalla sala dei congressi sotto gli occhi apparentemente indifferenti di Xi Jinping. Per alcuni, il presidente cinese in carica aveva voluto coronare la sua rielezione con un segno di disprezzo per l’ala più moderata del partito, di cui Hu Jintao era un celebre rappresentante, per quanto in declino. Per altri, aveva semplicemente voluto impedire al vecchio presidente di criticare le nuove nomine per il Comitato centrale, dato che erano stati esclusi tutti i suoi candidati. Ma era finito il tempo in cui gli ex presidenti erano capaci di influenzare la politica cinese da dietro le quinte. Secondo alcuni, però, era finito soprattutto il tempo in cui la carriera dei funzionari dipendeva più dalle capacità che dal senso di obbedienza per il presidente.

In questo senso, Putin stava facendo da maestro al collega cinese. Dopo averlo riportato in vita per colmare il vuoto lasciato dalla morte del comunismo, il presidente russo  stava ora usando il nazionalismo sino alle sue conseguenze estreme, sino a chiedere, cioè, a dei ventenni di sacrificarsi per la patria. Ovviamente, Putin aveva dovuto prima inventarsi la narrazione di una Russia in pericolo a causa dell’Occidente.

Secondo alcuni commentatori, Xi Jinping poteva usare una narrazione simile, ossia affermare che gli Usa intendevano intromettersi negli affari interni di Pechino impedendo l’unificazione con Taipei. Da qui a convincere i cinesi che era necessaria un’azione di forza il passo era breve. Da parte sua, il Pentagono era dell’idea che la Cina fosse in grado di invadere Taiwan, e che Xi Jinping sognava una conquista a stretto giro per rafforzare il proprio potere. Ma era proprio così? Infatti, anche gli americani – bisogna sottolinearlo – non possedevano la sfera di cristallo. Ad esempio, avevano pensato che Mosca avrebbe occupato facilmente l’Ucraina, per poi essere smentiti dai fatti sul campo di battaglia. Certo, il paese guidato da Zelensky era molto più grande e popoloso di Taiwan, ma era anche vero che era assai meno ricco e meno organizzato, e privo della difesa costituita dal mare. Di conseguenza, nessuno avrebbe potuto affermare con certezza che un attacco cinese a Taiwan sarebbe stato coronato da un facile successo.

Per quanto riguardava lo scenario europeo, in quel periodo gli ucraini avevano ripreso saldamente l’iniziativa e si erano spinti ad attaccare in modo sistematico la città russa di Belgorod, che stava diventando sempre più un simbolo del disastro della cosiddetta “operazione militare speciale”. Anche perché si trattava di una città di confine tra due nazioni sorelle sino al giorno prima. Non a livello di governi, ma di persone comuni che ora, spesso, si trovavano a combattere le une contro le altre, anche se facevano parte della stessa famiglia.

Messa alle strette, Mosca stava continuando a comprare grandi quantità di droni kamikaze e missili iraniani Fateh-110 e Zolfaghar, col risultato di spingere Israele, nemica giurata di Teheran, a intervenire a favore di Kiev nonostante il recente avvicinamento tra Mosca e Gerusalemme voluto da Putin. Del resto, Israele aveva venduto armi alla Georgia durante il conflitto con la Russia, ma questo non aveva spinto Teheran a intervenire a fianco di Mosca. Da parte sua, Gerusalemme avrebbe ricucito con Mosca fornendo armi anche alla Russia dopo lo scontro con Tbilisi.

A proposito di armi, in quei giorni la Germania aveva sostenuto uno scudo missilistico a protezione dell’Europa che però non piaceva alla Francia, dato che non usava tecnologia tutta europea (e francese in primis). Lungi dal cementare il loro patto di ferro, Parigi e Berlino si trovavano spesso sui lati opposti della barricata quando si trattava di progetti comuni in cui la Francia intendeva perseguire l’autonomia strategica dagli Usa. Non a caso, un vertice tra Scholz e Macron che si doveva tenere in quel periodo era in bilico. E, a proposito di gravi difficoltà, la britannica Liz Truss era in procinto di dimettersi, con la conseguenza che sui giornali del Regno Unito si era iniziato a parlare di “italianizzazione” della politica britannica. Mentre un governo europeo era in procinto di cadere, un altro stava nascendo, quello della prima donna premier della Penisola, Giorgia Meloni. Proveniente dall’estrema destra parlamentare, sarebbe stata messa subito sotto i riflettori internazionali, anche perché già da giorni molta stampa in tutto il mondo vedeva nella sua presa di potere il ritorno del Fascismo nel paese che non solo lo aveva fondato, ma che ora faceva parte del G7 (ed insomma, non si trattava della modesta Ungheria di Orban).

Ovviamente, gli scontri tra alleati venivano fatti sempre nella consapevolezza che i veri nemici erano altri, ma intanto un progetto comune di difesa del Vecchio continente veniva bloccato per interessi nazionali. Del resto, sia Parigi che Berlino intendevano evitare di esasperare i toni con Mosca al contrario di Londra, almeno in parte sostenuta da Washington. In quel momento, però, Francia e Germania non potevano ottenere molto da Putin dato che le sue truppe erano in ritirata. Infatti, il capo del Cremlino intendeva contrattare con Zelensky da una posizione di forza, e cioè esattamente quanto non era ancora riuscito a raggiungere. Anche per tale motivo, il presidente russo non riteneva utile un incontro con Biden. Dall’altra parte, nessuno in Occidente desiderava permettergli di cantare vittoria e spingere di conseguenza paesi come la Cina e l’Iran a seguire la politica aggressiva della Russia. Secondo alcuni analisti, Putin avrebbe continuato a lungo la guerra perché era il primo a sapere di non poter usare le armi atomiche in Ucraina per non scatenare la reazione della Nato. Viceversa, avrebbe potuto rispondere nell’unico modo efficace, ossia usando le sue forze nucleari, il che significava, però, non solo scatenare l’Armaggedon ma rischiare, come si è detto, di suscitare il no fermo dei suoi generali. Ed insomma, Putin rischiava di innescare uno scontro tra forze interne prima ancora che con la Nato, se non addirittura l’arresto immediato. Infatti, il capo del Cremlino non contava molti amici tra l’esercito, e il rischio di uno scontro tra settori delle forze armate, o, più probabilmente, tra i servizi segreti e i generali, suggeriva un risultato alla romena. Quello cioè che il dittatore di Bucarest Ceausescu, sostenuto inizialmente dalla famigerata Securitate, subì alla fine sulla propria pelle, una volta abbandonato dall’esercito. Ovviamente, Putin non avrebbe voluto seguire il suo destino, culminato con la barbara fucilazione di Ceausescu insieme con la moglie Elena. C’era addirittura chi sosteneva che Putin aveva pensato ad una invasione rapida dell’Ucraina per inaugurare nel migliore dei modi il processo di transizione per la sua successione. Le cose stavano andando diversamente, ma la successione era ancora sul tavolo. Infatti, il capo del Cremlino sapeva che il suo potere era a rischio, e nominare un sostituto che avrebbe garantito la tenuta del regime e, insieme, la sua incolumità, come lui aveva garantito a suo tempo quella di Eltsin, poteva risultare una mossa vincente. Tra tutti, sembrava spiccare Prighozin, il cosiddetto “cuoco di Putin”, che con la sua Wagner non perdeva occasione per mettersi in mostra sul fronte. Per alcuni, intendeva farsi notare da Putin; per altri, voleva aumentare il proprio prestigio agli occhi del popolo russo, per sfidare il capo del Cremlino alle successive elezioni politiche. Qualunque fosse la verità, per diversi analisti Putin avrebbe tollerato i successi sul campo di Prighozin sino a quando non si fossero tradotti in una minaccia al suo potere. Non a caso, il capo del Cremlino non si era mai sognato di fornirgli grandi incarichi. Bastava relegarlo ad un ruolo secondario, da dove però il comandante della Wagner avrebbe potuto raccogliere delle vittorie senza il rischio di vedersi addossato l’insuccesso generale della guerra, col risultato di aumentare il proprio prestigio. Come si è già detto, molti russi ritenevano che fosse lui, e non gli imbelli generali di Putin, a meritare posizioni di alto comando. Del resto, se Putin lo avesse nominato capo supremo dell’armata in Ucraina, qualunque successo dei russi sarebbe stato associato a Prighozin, che era esattamente il risultato che Putin desiderava evitare. Per il capo del Cremlino, l’unica soluzione era veder vincere l’esercito agli ordini di uomini poco noti al grande pubblico, di cui potersi prendere il merito dei successi semplicemente per il fatto di averli scelti. Da questo punto di vista, aveva fatto bene a puntare su Surovikin. Sconosciuto ai più, il nuovo generale, peraltro l’ultimo di una serie, aveva subito colpito i centri nevralgici dell’Ucraina come le centrali elettriche e inaugurato, di conseguenza, anche la strategia del terrore. In questo modo, Putin aveva dato slancio ad una strategia criminale in cui ciò che contava davvero erano i risultati agli occhi dei propri cittadini, anche a costo di usare gas fuorilegge come la cloropicrina. In più, con l’inasprimento del conflitto, il nazionalismo di entrambe le parti sarebbe aumentato, e alla strategia criminale dei russi sarebbe seguita una controffensiva degli ucraini sul territorio stesso della Federazione, che avrebbe spinto molti suoi abitanti a pretendere iniziative ancora più devastanti contro Kiev. Ed insomma, Putin sembrava puntare su un innalzamento del livello di scontro dove il pericolo nucleare sarebbe stato altissimo. Al punto da spingere gli occidentali a pretendere da Zelensky la fine della guerra anche al prezzo di grosse concessioni territoriali, che in quel momento ben pochi ucraini sembravano disposti ad accettare dopo tante devastazioni. Lo scontro con Mosca aveva addirittura toccato la sfera religiosa, per cui era stato proposto di vietare le attività del Patriarcato ortodosso di rito moscovita in Ucraina nonostante la sua condanna delle “sanguinose parole” del capo della Chiesa russa Kirill, definito un giorno dal papa “il chierichetto di Putin”. Consapevoli di questo,  gli Usa avevano subito sottolineato di non aver fornito armi agli ucraini perché attaccassero la Russia nel suo territorio. Non a caso, era notizia di quei giorni che gli americani avevano depotenziato ulteriormente i celeberrimi lanciarazzi Himars inviati a Kiev, per impedire loro di colpire in profondità nella Federazione. In quei giorni, gli ucraini erano i probabili responsabili di due attacchi nel cuore della Russia, uno contro un grande serbatoio di benzina non lontano da Mosca e l’altro tramite droni contro due giganteschi bombardieri Tupolev nel sud est del paese. Probabilmente, quegli stessi bombardieri che, volando al sicuro sul Mar Caspio, lanciavano missili contro la lontana Ucraina.

Si trattava di un gioco pericolosissimo nelle mani di Putin in mancanza di successi sul campo di battaglia. La situazione sul fronte continuava  a peggiorare. Molti soldati continuavano a lamentarsi di essere mandati allo sbaraglio contro il nemico, suscitando le proteste delle loro famiglie, ed in particolari delle madri. Di conseguenza, Putin aveva iniziato ad occuparsi del rafforzamento dell’ideologia di regime in Russia, per cui decise che per legge nessuno potesse più parlare di omosessualità, “depravazione” di chiara origine occidentale. Eppure l’articolo 13 della Costituzione russa vietava l’adozione di un’ideologia di Stato. Ovviamente, Putin fu subito spalleggiato dal capo ceceno Kadyrov, noto campione di cultura liberale. A ciò si aggiunse la decisione di uscire dal Consiglio d’Europa dopo 26 anni di partecipazione, sebbene ciò potesse essere dovuto al desiderio di anticipare un’umiliante esclusione che era nell’aria. Secondo il politologo russo Andrej Kolesnikov, Putin non aveva una strategia chiara, si muoveva secondo una logica opportunistica giorno per giorno. Nonostante le voci contrarie, il Presidente russo godeva ancora di una certa popolarità, e non era ostaggio di nessuno, tanto meno dei cosiddetti “falchi”, dei quali anzi si serviva. Infatti, Putin, come Hitler, li sapeva aizzare gli uni contro gli altri, in modo da rimanere lui il centro naturale del potere. Pochi giorni prima, Prighozin se l’era presa con certi militari incompetenti buoni solo a indossare abiti firmati: chiaro riferimento al ceceno Kadyrov che pure il capo del Cremlino aveva promosso di recente. Probabilmente, Putin sapeva che per molti suoi sostenitori anche solo resistere all’Occidente era una vittoria. Per tale motivo, il presidente russo sapeva di dover ripetere ad ogni piè sospinto di lottare contro la Nato, non contro l’Ucraina. Eppure c’era chi sosteneva che se la Russia non fosse stata protetta dal suo enorme apparato nucleare sarebbe stata invasa in una settimana dalle truppe dell’Occidente alleate di Kiev. Ed era proprio il fatto che ciò non avvenisse, che cioè la Russia rappresentasse un luogo inviolabile per le truppe Nato nonostante la sua brutale invasione dell’Ucraina, che dimostrava quanto falsa fosse la narrazione putiniana di un paese a cui Occidente guardasse con mire espansionistiche.

In quel periodo, il solito Medvedev affermava che i soldati della Federazione si sarebbero ripresa  non solo Kherson ma anche Kiev, dato che era una tipica città russa. Probabilmente, sia lui che Kadyrov che Prighozin cercavano di ritagliarsi un posto al sole in vista della successione a Putin. In realtà, come si è detto, il presidente russo era ancora saldamente in sella, e non sarebbero stati uomini di secondo piano a scalzarlo; non nell’immediato almeno, come si preciserà meglio in seguito. Neppure con l’aiuto di ideologici come Dugin, il noto e controverso intellettuale russo la cui figlia era stata uccisa, secondo gli stessi americani, dagli ucraini qualche settimana prima. Accusato di aver incitato ad uccidere il capo del Cremlino se non fosse stato in grado di vincere la guerra, Dugin aveva subito smentito, ma senza convincere. In questo senso, forse era lui stesso a correre ora un serio rischio.

Intanto il nuovo comandante russo sul campo, Surovikin, dovette ammettere che i suoi uomini, nonostante la furiosa reazione contro centri nevralgici come le centrali elettriche, erano sotto duro attacco a Kherson, dove era stata imposta la legge marziale. In tale contesto, il generale aveva parlato di “decisioni difficili” da prendere, il che però significava – ora era chiaro – una ritirata strategica, non l’uso delle armi nucleari tattiche come all’inizio si era temuto.  Via via che gli ucraini conquistavano terreno, partiva la caccia ai collaborazionisti, che conoscevano bene ancora prima di giungere sul posto. Le autorità di Kiev chiedevano ai cittadini di aiutarli a identificare i traditori anche segnalandoli dopo aver inquadrato il codice QR dei cartelloni esposti per strada dall’esercito, e, una volta occupato un territorio, ponevano dei posto di blocco in uscita per evitare che si dessero alla macchia. Secondo gli uomini di Zelensky, si trattava di soggetti socialmente “frustrati”, almeno in parte responsabili delle brutalità perpetrate dalle truppe di Putin sui civili inermi, comprese le violenze sulle donne che, purtroppo, continuavano a vedere coinvolti soprattutto i cosiddetti “uomini dagli occhi a mandorla”. Il che, ovviamente, poteva segnalare più la paura per il diverso che un dato statistico, ma intanto si continuava a parlare di mostri dai tratti asiatici assetati di sangue e sempre pronti ai soprusi sessuali.  Le violenze toccavano tutti, non solo le donne. Anche numerosi giovani uomini erano stati violentati, per non parlare dei bambini, i quali, tra l’altro, non riuscivano a superare neppure il trauma delle esplosioni. Ad esempio, c’erano giovanissimi profughi di guerra che non entravano nelle nuove scuole dove erano stati condotti perché, pur lontani dal fronte, temevano di vederle bombardare all’improvviso.

Mentre i russi erano in ritirata, c’era già chi parlava di una inevitabile controffensiva di Mosca. Non sarebbe avvenuta subito, ma quando il terreno si fosse solidificato col gelo, nella fase intermedia dell’inverno. Per anticiparla, gli ucraini avrebbero potuto inscenare un attacco russo con una bomba “sporca”, ossia capace di spargere polveri radioattive, allo scopo di coinvolgere in modo più diretto l’Occidente nella guerra. Era stato il ministro della difesa di Mosca, Shoigu, ad avanzare tale ipotesi coi colleghi francese e britannico (ossia gli unici due europei alla guida di potenze nucleari come Mosca). Per alcuni, il russo intendeva screditare il nemico e confondere le acque per permettere a Mosca di usare impunemente l’ordigno. In effetti, Putin avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di vincere, e se non ordinava la mobilitazione generale era solo perché non sarebbe stato in grado di giustificarla. Infatti, non poteva affermare che Kiev aveva attaccato Mosca, dato che non era vero, e, inoltre, non voleva ammettere in alcun modo che la situazione sul campo era tragica. Secondo Ugo Poletti, fondatore di “The Odessa journal”, gli ucraini erano nelle condizioni di vincere in quanto meglio armati e più motivati del nemico. Da parte sua, Mosca, dopo aver criticato aspramente la scelta di Roma di escluderla dal vertice sul disarmo organizzato in Italia, lanciava attacchi con droni kamikaze dalla Bielorussia, e utilizzava tutte le persone disponibili a combattere, compresi i malati di epatite C, che erano tenuti a portare un braccialetto bianco, e di hiv, a cui ne toccava invece uno rosso. Tornati feriti dal fronte, si vedevano spesso rifiutare le cure dai medici russi a causa delle loro gravi malattie virali. 

Mentre si consumavano tragedie umane come queste, a riprova del ben noto pressapochismo e cinismo dell’esercito russo, Putin testava missili ipersonici Yars, capaci di volare a 10.000 km all’ora, e faceva alzare in volo  grandi e obsoleti bombardieri su rotte artiche. Contemporaneamente, però, girava la voce che Prigozhin, “il cuoco di Putin”, nonché fondatore della famigerata Wagner nonostante le ripetute smentite iniziali, stesse progettando una linea anticarro sul confine con l’Ucraina. Dalle stelle alle stalle, avrebbe chiosato qualcuno.

Come si è detto, neppure la Cina poteva aiutare. Pechino stava comprando a prezzi ribassati le materie prime russe, e le sue multinazionali stavano occupando il posto lasciato da quelle occidentali nelle principali città della Federazione, ma stava vedendo sfumare alcuni progetti internazionali importanti per via della guerra. Inoltre, doveva subire in alcuni paesi le proteste dei popoli che, disapprovando l’aggressione russa, criticavano i governi locali sostenuti da Mosca e dai suoi alleati, cinesi in primis. Non a caso, Pechino stava cercando di abbassare i toni con Washington, con cui aveva riaperto i canali di comunicazione bilaterali dopo il viaggio di Pelosi a Taiwan, sebbene stesse subendo la stretta sui chip informatici americani e la “provocazione” del passaggio sistematico di navi da guerra statunitensi nello stretto di Taiwan. Del resto, non era conveniente neppure per Washington interrompere di colpo le forniture a Pechino perché questo non solo avrebbe devastato il mercato ma spinto la Cina a rendersi autonoma dagli Usa in breve tempo, scelta, questa, poco strategica per gli stessi americani. Anche per motivi del genere, Pechino continuava a strizzare l’occhio a Mosca, con cui peraltro condivideva il disprezzo per le libertà e i diritti civili. Ad esempio, affermando che la Federazione sarebbe tornata presto ad essere “una grande potenza”. Ad esserne convinto sembrava in quei giorni l’ideologo Konstantin Malofeev, per il quale la Russia avrebbe avuto presto un’economia fortemente integrata con quella cinese, al punto da mettere all’angolo gli Usa nel giro di un anno. Per intanto, la Federazione doveva subire l’ennesimo rovescio militare, ossia l’attacco della base navale di Sebastopoli con droni marini di Kiev. Utilizzati di concerto con quelli aerei, chiamati a distrarre le difese russe, le piccole imbarcazioni senza equipaggio e imbottite di tritolo erano riuscite a danneggiare alcune navi di Mosca, al punto da spingere un infuriato Putin a sospendere l’accordo Onu sull’export del grano ucraino, oltreché a bombardare Kiev con missili in gran parte iraniani. Inoltre, il Cremlino accusava Londra di essere la vera “mente” di un attacco navale così ben congegnato, non a caso condotto con attrezzature in parte britanniche. Come risultato, Putin chiese agli ucraini garanzie per la sicurezza delle navi russe in cambio del ripristino delle loro esportazioni di grano, con una mossa tanto sfacciata quanto sintomo di debolezza. Da lì a poco, senza attendere la risposta di Kiev, Mosca avrebbe fatto riprendere le esportazioni di frumento, a patto, però, di poter tornare a vendere anche i propri alimenti e fertilizzanti. Segno che il malcontento delle elite economiche russe stava aumentando, e che Putin non poteva più non tenerne conto.

Mosca, però, sembrò capace di fare ben altro. Infatti, tutto il mondo trattenne il fiato quando alcuni missili non identificati colpirono la Polonia uccidendo due passanti. Varsavia mobilitò immediatamente il proprio esercito, in cui stava investendo da tempo ingenti risorse. Da parte sua, Zelensky gridò subito all’aggressione russa ai danni di un paese Nato, in conseguenza della quale l’Allenza atlantica avrebbe dovuto colpire Mosca. Immediatamente, molti occidentali condannarono la reazione del presidente ucraino; per loro, Zelensky avrebbe dovuto attendere l’accertamento dei fatti prima di puntare il dito contro Mosca e spingere il mondo verso la Terza guerra mondiale. Ma non si trattava solo di questo. Molti, in America e in Europa, continuavano a considerare Zelensky responsabile di una resistenza effimera, che non avrebbe condotto a nulla di buono per il mondo. Era come se tali occidentali vedessero in Zelensky una inevitabile vittima sacrificale per rabbonire il Moloch-Russia, detentore del fuoco atomico. In effetti, bisognava probabilmente leggere l’ostilità di molti in Occidente verso gli ucraini in chiave religiosa pagana, dato che non ci si aspettava sin dai tempi antichi che i soggetti più deboli si ribellassero all’idea del rito sacrificale per propiziarsi gli dei. Del resto, anche senza scomodare discorsi del genere, sembrava proprio che il presidente ucraino avesse un unico pensiero fisso, quello di coinvolgere l’America e l’Europa nello scontro diretto con Mosca. Una bella pretesa, la sua, secondo molti, anche se fosse stato alla guida di un paese ben più importante dell’Ucraina (perché numerose persone pensavano anche questo, ma poche avevano il coraggio di ammetterlo).

Da parte loro, gli analisti occidentali invitarono tutti alla calma. Anche Biden lo fece, suscitando l’apprezzamento di Putin. Infatti, era difficile che i missili arrivati in Polonia fossero russi. Più facile che fossero frammenti di S-300 ucraini, usati per intercettare i vettori a lungo raggio di Mosca. In ogni caso, come aveva sottolineato la neo premier italiana Giorgia Meloni, si trattava di un episodio tragico determinato dal comportamento di Mosca, che, continuando a bombardare l’Ucraina, costringeva quest’ultima a difendersi anche a rischio di commettere gravi errori. In effetti, Putin aveva scatenato un attacco massiccio dopo la risoluzione Onu che accollava alla Russia i danni di guerra in Ucraina, per non parlare del discorso di Zelensky al G20 di Bali contenente le sue condizioni per la pace. A tutto ciò si aggiungeva la decisione della Nato di dichiarare la Russia stato terrorista. Evidentemente, non la pensava così Orban, che aveva appena concluso un accordo coi russi di Rosatom per la costruzione di due nuovi reattori nella centrale atomica di Paks. Del resto, il “piccolo Putin” d’Europa aveva mostrato più volte simpatia  per la dittatura russa. Aveva addirittura parlato spesso di “Grande Ungheria”, suscitando lo sdegno dei paesi che avrebbero dovuto cedere dei territori a Budapest per motivi storici ed etnici.

Per molti commentatori tv russi, Mosca avrebbe dovuto fare molto di più contro il nemico: infliggere un colpo mortale alla difesa ucraina e colpire gli occidentali responsabili del contrattacco di Kiev. In questo senso, un’aggressione alla Polonia era legittimo, dato che Varsavia giocava un ruolo fondamentale nella guerra, svolgendo la funzione di enorme hub a cielo aperto di quasi tutti gli aiuti militari occidentali, in attesa di diventare, secondo molti, un hub di aziende europee ed americane pronte a impegnarsi nella ricostruzione dell’Ucraina. Il che, ovviamente, spingeva molti critici a sostenere che una guerra lunga conveniva all’Occidente, anche perché aveva messo in moto la potente industria militare, ed in particolare quella dei proiettili per i cannoni. Ce n’erano pochi,  e mentre Washington chiedeva di produrre di più alle sue aziende di armi, con scarsi risultati nell’immediato, Londra e Parigi pretendevano dalle proprie un ritmo addirittura da “economia di guerra”. L’acciaio non mancava, l’esplosivo sì. Di conseguenza, le grandi potenze occidentali cercavano proiettili dagli alleati sparsi per il mondo da girare subito a Kiev, ricevendo, però, spesso un rifiuto. Infatti, proprio la guerra ucraina dimostrava l’importanza dell’artiglieria terrestre, e la necessità di mantenere gli arsenali nazionali ben guarniti. Ad esempio, lo Stato maggiore italiano aveva deciso di ordinare in un decennio 2,7 miliardi di munizioni contro i pochi milioni annuali iniziali. Se questa era la situazione degli alleati occidentali, la Russia aveva meno problemi di rifornimenti di proiettili per i cannoni grazie alle immense scorte di ordigni di epoca sovietica. Sembrava invece che Mosca non avesse più una gran disponibilità di missili, soprattutto dopo gli attacchi che avevano dimezzato la capacità elettrica dell’Ucraina. Tanto è vero che la maggioranza dei deputati della Ue avevano deciso di seguire l’esempio dei paesi della Nato definendo Mosca “sponsor del terrore”, come una qualsiasi dittatura fondamentalista islamica. Di conseguenza, si consigliava gli stati membri dell’Unione di creare le condizioni giuridiche per inserire la Russia nella lista dei paesi sotto accusa. Avevano votato contro la risoluzione innanzitutto coloro che pensavano che definire la Russia “stato terrorista”, ossia un paese con cui non si potesse dialogare, non era il modo migliore per cercare di riportare Putin al tavolo della pace. Del resto, Mosca si stava accanendo contro la popolazione ucraina da mesi per spingere Zelensky a chiedere la resa. In tal modo, stava violando il diritto bellico in modo sfacciato. In questo senso, per molti era il minimo definire la Russia “stato terrorista”. Tra l’altro, i contestatori di Putin nella Federazione non smettevano di far sentire la propria voce, e tra questi continuavano a spiccare le madri dei soldati inviati sul fronte senza preparazione e strumenti adeguati. Alla fine, Putin aveva deciso di incontrarne alcune davanti alle telecamere per spiegare loro, quasi con le lacrime agli occhi, che la guerra, e quindi l’arruolamento e la morte dei loro figli, era stata necessaria. Per alcuni, Putin aveva accettato una simile sceneggiata perché, evidentemente, si trovava in difficoltà. Del resto, il suo staff aveva selezionato le donne più adatte a parlare col presidente, così come avrebbe selezionato i giornalisti “amici” in occasione di altre occasioni pubbliche, che peraltro stavano diventando sempre più rare per non mettere in difficoltà Putin.

Il Cremlino, però, sembrava soprattutto interessato al price cap sul gas, nel senso che era contrarissimo a vederne imposto uno dagli occidentali. In effetti, il fronte europeo era tutt’altro che unito, e se da una parte Italia, Spagna e Francia si dicevano favorevoli (come Washington), Germania e Paesi Bassi erano assolutamente contrari per timore di mettere in pericolo gli approvvigionamenti energetici.

Inoltre, il Cremlino aveva preso di mira le parole del papa, per il quale la guerra in corso mostrava che ceceni e buriati erano più feroci dei russi di origine slava. In effetti, una singolare affermazione la sua, che permise alla portavoce del ministero degli Esteri di ironizzare, definendo il capo della chiesa cattolica “vittima della propaganda occidentale”. Secondo l’ormai ben nota Zacharova, infatti,  prima gli occidentali avevano accusato i russi di colpire i ceceni, mentre ora puntavano il dito contro quest’ultimi. Forse era meglio che si chiarissero le idee. Probabilmente, la portavoce avrebbe trovato più difficile ironizzare sulla tendenza degli ortodossi ucraini di lasciare il Natale di rito moscovita, che cadeva il 7 gennaio, a favore di quello europeo del 25 dicembre. Uno schiaffo in pieno volto non solo al metropolita Kirill, già definito dal papa “chierichetto di Putin”, ma alla cultura russa. Secondo una deputata ucraina “non diciamo alle Chiese quando e come celebrare le loro festività, ma passare al calendario gregoriano è un segno di europeizzazione”. Infine, Zacharova sembrava poco incline all’ironia quando si parlava di confisca degli asset russi in Occidente per usarli nella ricostruzione dell’Ucraina. Secondo lei, infatti, se i beni “dei nostri cittadini saranno confiscati, prenderemo contromisure adeguate”. Quali, non era dato sapere.

in quei giorni aveva fatto scalpore la morte improvvisa del secondo uomo più potente della Bielorussia, il ministro degli Esteri Vladimir Makei, durante i lavori della conferenza dell’Organizzazione del Trattato per la sicurezza collettiva a Erevan, in Armenia. Secondo alcune fonti, Putin aveva colpito lui per mandare un segnale a Lukashenko, che continuava a non voler entrare in guerra. Il Cremlino intendeva uccidere anche il dittatore di Minsk nel caso non si fosse piegato al volere dei russi, o comunque inscenare un attentato sufficiente a intimorire Lukashenko, e a spingerlo nella direzione “giusta”.

Nonostante le difficoltà, la macchina dei rifornimenti occidentali, soprattutto grazie all’apporto americano, continuava  a girare. Eppure una fetta consistente di armi continuava a non raggiungere il fronte. Da lì a poche settimane, il presidente nigeriano avrebbe parlato di armi americane di ultima generazione che erano comparse sui campi di battaglia africani. In effetti, quella guerra aveva scatenato l’appetito di tanti. Quegli stessi che magari avevano attaccato apposta la Polonia coi missili, per rinfocolare cioè un conflitto con cui si stavano arricchendo enormemente. Per essere più chiari, tra loro spiccavano i servizi segreti russi al soldo di qualche magnate della Federazione.

Nel resto del mondo, si imponevano le notizie di un possibile attacco di Teheran a Ryad dovuto alle difficoltà interne degli ayatollah, e il lancio di 23 missili della Corea del Nord, dovuto al desiderio di legittimazione di un feroce dittatore tramite i soliti atti di forza. Infine, l’ipotesi, avanzata dal NYT, di un possibile accordo tra Trump e Putin, ai tempi delle elezioni Usa. L’obiettivo era l’autonomia delle regioni orientali dell’Ucraina, da collocare evidentemente sotto l’influenza di Mosca, in cambio della Casa Bianca per il tycoon. Rimaneva vero, però, che Putin aveva attaccato Kiev durante l’era Biden e non quella Trump. Di conseguenza, alcuni parlavano di complotto democratico per delegittimare i repubblicani in vista delle elezioni di mid term, precedute  da sondaggi poco confortanti per Biden. Inoltre, il presidente americano era accusato di aver concesso l’immunità al principe saudita Mohammed bin Salman, l’assassino del giornalista Kasshoggi, pur di evitare un ulteriore taglio del greggio a svantaggio degli alleati. Per non parlare, poi, degli attacchi da parte degli europei stessi, per i quali la Casa Bianca non solo distorceva il mercato coi troppi sussidi alle aziende statunitensi, ma faceva finta di non vedere i prezzi triplicati del gas a stelle e strisce destinato al Vecchio continente. A criticare la posizione di Biden era soprattutto Parigi, una tradizionale spina nel fianco degli Usa soprattutto in vista di una maggiore autonomia in campo militare dell’Europa. Al vertice della Ue, il Presidente del Consiglio europeo,  Michel, sembrava appoggiare la linea di Macron, mentre la Presidente della Commissione, Ursula von der Layen, quella statunitense. A dirla tutta, la politica tedesca pareva guidata da una maggiore realpolitik, fondata sul fatto che l’Ucraina stava combattendo per la propria libertà, garantendo la stabilità del Vecchio continente, grazie al massiccio aiuto americano, non europeo. Inoltre, la Presidente della Commissione non poteva sostenere sino in fondo la posizione francese perché sapeva bene che era difesa non solo a svantaggio degli Usa ma di qualsiasi altro concorrente, a partire dalla sua madrepatria, la Germania. Infatti, al di là di tante professioni di amicizia fraterna, Berlino e Parigi non si erano mai fidate sino in fondo l’una dell’altra.

A parte questo, la Presidente della Commissione e quello del Consiglio non si erano mai davvero piaciuti, e quando Michel era andato in Cina a dicembre lo aveva fatto quasi a titolo personale secondo lo staff di Ursula von der Lyen. Il punto era che effettivamente Pechino poteva giocare un ruolo fondamentale nel conflitto, da porre accanto a quello americano. Per una certa Europa, di cui Michel era evidentemente rappresentante, occorreva dialogare con le maggiori potenze del pianeta per equilibrare almeno in parte un’esposizione eccessiva della Ue nei confronti degli Usa, i cui interessi economici continuavano per certi versi a sembrare non coincidenti con quelli europei anche dopo l’uscita di scena di Donald Trump. Da parte sua, Michel aveva rivendicato l’iniziativa di incontrare Xi Jinping dal quale aveva ricevuto rassicurazioni circa la ferma condanna di ogni iniziativa militare nucleare da parte di Mosca contro Kiev. Mentre il Presidente del Consiglio europeo cercava rassicurazioni a Pechino, da cui peraltro era considerato più facile da manipolare di Ursula von der Lyen, altri mostravano di non fidarsi più del gigante asiatico. Sia le multinazionali americane, che stavano delocalizzando fuori dalla Cina, che il governo – ed anzi, gli ultimi due – governi di Washington (Trump e Biden), per i quali non bisognava abbassare la guardia neppure da un punto di vista militare. Proprio in quei giorni, Washington  aveva mostrato al mondo, in una scenografia mozzafiato, il nuovo bombardiere stealth B-21 rider, e con esso la propria  solida superiorità tecnologica sui concorrenti, Russia e Cina in primis.

Del resto, la guerra che sembrava aver riportato indietro le lancette della storia era stata capace di far tornare a galla antiche rivalità e contrapposizioni tra numerosi paesi europei stessi, con conseguente retorica infarcita di frasi fatte. La Russia aveva risvegliato vecchi fantasmi nei polacchi non solo riguardo a Mosca, ma anche rispetto all’altra antica avversaria di Varsavia, ossia la Germania. In vista della campagna elettorale del 2023, e complice il calo nei sondaggi per il suo partito nazionalista, l’ex presidente Kaczinski aveva parlato di disegno egemonico di Berlino sull’Europa, ben sapendo che era un tema capace di portare molti consensi. Ovviamente, tutto questo si aggiungeva alla ben nota contrapposizione tra Grecia e Turchia, tra Ungheria e Ucraina ( e Romania), ma anche, a tratti, tra Londra e Parigi per via del periodo di transizione dovuto alla Brexit, per non parlare delle tensioni all’interno dello stesso Regno Unito, tra Scozia e Inghilterra.

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