
Caro Ministro Salvini,
mi piace sentire i suoi discorsi riguardanti l’abbassamento delle tasse sul lavoro. Mi piace molto.
Aspettiamo da anni che qualcuno si occupi delle partite iva, e finalmente lei si è mosso, almeno per il momento. Di questo le debbo rendere atto.
Ora però bisogna fare un altro discorso. Essere onesti e chiederle: perché un ministro che dice cose sensate in un certo ambito deve fare uscite che non stanno né in cielo né in terra in un altro?
Avrà già capito dove voglio arrivare, immagino.
Ebbene sì, voglio arrivare alla questione dell’immigrazione.
So benissimo che non è il suo settore, lei è il Ministro dell’interno. Ma è proprio questo il punto: perché si occupa di questioni che conosce poco? Lei infatti non si ferma a parlare della sicurezza degli italiani a contatto con gli stranieri, no: lei parla – ohibò – delle vicende personali dei migranti.
Parla della pacchia che godrebbero questi “disperati” a spese degli italiani. Le sembra giusto? Le sembrano frasi da persone intelligenti? A me no. E le spiego subito perché.
Non è una pacchia quella di una ragazzina nigeriana a cui viene fatto credere di poter ottenere in Italia un lavoro dignitoso con cui aiutare la famiglia, per poi, giunta nella penisola, farle trovare tutt’altro, la strada della prostituzione, e la minaccia di uccidere la madre lasciata in patria se non accetta di percorrerla sino in fondo.
Non è una pacchia quella di chi scappa da Paesi in cui un giovane omosessuale viene preso di mira per i suoi atteggiamenti poco “virili”, e odiato a tal punto che anche quando trova rifugio in Italia viene a sapere che qualcuno lo sta ancora cercando per ucciderlo, ossia il fratello maggiore giunto per impedire che la famiglia continui a vergognarsi di lui a migliaia di chilometri di distanza.
Non è una pacchia quella di chi, giovane uomo di colore sul ciglio di una strada libica in fila con altri per essere scelto come lavorante per un cantiere di Tripoli, viene invece sequestrato da una banda di senzadio, i quali, non ottenendo i soldi del riscatto dai parenti poveri spesso difficilmente contattabili, decidono di sparargli ad un piede. Non è una pacchia neppure che questo ragazzo, per paura della polizia locale, non si rechi subito all’ospedale, e che quando lo fa sia troppo tardi, e che gli venga amputata la gamba sino al ginocchio.
Non è una pacchia che le donne migranti vengano messe in un carcere libico da sole coi bambini, e che spesso vengano raggiunte dagli uomini che le hanno arrestate per fare sesso davanti ai loro figli piccoli, talvolta picchiati a sangue se iniziano a piangere.
Sa cosa è stata una pacchia per loro, mi si passi l’espressione? Che, di fronte ai continui arrivi, talvolta i carcerieri imbarchino dei migranti senza chiedere loro soldi, altrimenti non ci sarebbe posto per i nuovi venuti. E che essi si affrettino a saltare su dei barconi stracolmi anche se non sanno nuotare (e dove saranno costretti a farsi la pipì e la cacca addosso per tutto il tempo del viaggio).
Questa è stato il massimo della pacchia, per loro.
Lei lo sa che non solo la Francia, ma che pure altri Paesi stranieri, compresa l’Italia, sono complici della povertà delle zone da cui tali ragazzi scappano?
Lo sa che molti di questi giovani non hanno avuto la possibilità di studiare perché spesso non c’è stata, e non c’è tuttora, alcuna intenzione di renderli istruiti e quindi critici?
Lo sa che molti europei non hanno alcuna voglia di sostenere lo sviluppo di un ceto medio nei Paesi poveri?
Lo sa che la presenza di molte aziende straniere impedisce di fatto lo sviluppo di quelle locali nelle nazioni povere, a meno che non esistano dei protocolli di cooperazione che spesso sono osteggiati dagli occidentali (e non solo dai rapacissimi francesi)?
Lo sa, insomma, che è da lungo, troppo tempo, che la pacchia degli europei – questa sì meritevole di una simile, emblematica definizione – va avanti nei paesi africani?
Mi permetta di portarle un esempio personale.
Ho lavorato in Africa alcuni anni fa, e mi rimarrà sempre in testa la frase di una “matrona” italiana scappata nella capitale di un paese equatoriale col marito alcuni decenni fa.
Sa qual è tale frase? Che io non potevo condividere con la giovane donna delle pulizie africana il mio pasto perché alla gente del luogo doveva essere fornito solo pane e tè. Che oggi la carne gliela dai tu, e domani se la prendono loro (dal frigo). Frasi di questo genere insomma. Frasi condivise da molti connazionali laggiù, le assicuro.
Ed inoltre: lo sapeva che quando la nuova generazione di italiani nati lì, meno diffidenti – diciamo così – dei loro genitori, hanno deciso di costruire un campetto da calcio per organizzare dei tornei con la partecipazione di tutte le squadre della città, tornei aperti alla popolazione, qualcuno si è lamentato?
E sa chi? Gli inglesi della locale comunità, gli ex colonizzatori insomma, che dicevano di aver iniziato a vedere un po’ troppi africani nei terreni da loro affittati agli italiani. Se fosse stata una ex colonia francese probabilmente a lamentarsi sarebbero stati i cugini d’oltralpe.
Ha capito cosa voglio dire? Che migliaia di ragazzini che andavano felici a vedere uno spettacolo sportivo finalmente gratuito, accolti una volta tanto senza la puzza sotto il naso, tali ragazzini, dopo una notte passata a dormire magari nei pozzetti di fogna e ad annusare colla per scacciare la morsa della fame, avevano richiamato tanta protervia, e tanta spocchia da chi è storicamente la causa della loro vergognosa povertà, e della loro disperazione quotidiana!
Anche di questo se crede parleremo – io, lei, gli italiani -, prima o poi: del fatto cioè che il colonialismo è stato portatore di povertà per le genti africane, e che esso, di fatto, non è finito.
Per ora mi basta aver parlato della “pacchia” di tutti, fantomatica o reale che sia.
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