Ho un sogno (in campo economico)

l’Italia è stata culla di civiltà e ha influenzato lo sviluppo culturale dell’Occidente forse più di qualunque altro paese, foss’anche solo per una questione di durata nel tempo.
Con questo non voglio rappresentare alcun senso di superiorità, sia chiaro: un paese può fare più di un altro per una serie di variabili che non hanno nulla a che vedere con “la qualità media della sua popolazione”, qualunque cosa una espressione simile significhi. No, dico questo semplicemente perché noto che spesso noi italiani nutriamo piuttosto un senso di inferiorità nei confronti di altri paesi, di altri popoli: ecco, se conoscessimo un po’ meglio la nostra storia forse non nutriremmo nulla del genere.
Detto questo, spiace notare che l’Italia, dopo il disastro della Seconda Guerra Mondiale voluta da un traditore, opportunista e narcisista come Mussolini, nei cui confronti non si potrà mai provare abbastanza disprezzo, dopo il disastro della Seconda Guerra Mondiale, dicevo, l’Italia ha conosciuto il cosiddetto Miracolo economico anche grazie al piano Marshall, che smetteva di seguire una linea vendicativa, alla francese per intenderci (come molti sanno, fu a causa dello sciocco ed esagerato spirito di rivalsa transalpino che si volle punire duramente la Germania dopo la Prima Guerra Mondiale e che, di conseguenza, si aprirono le porte al nazismo), e fu figlio di uno spirito più efficace e pragmatico. L’Italia divenne una vera, grande potenza (ai tempi di Mussolini lo fu, ma di cartapesta) e poi, per motivi complessi, e dovuti probabilmente ad un desiderio di non scontentare mai il popolo, diventò la grande malata d’Europa. Un paese importante ma con un eccessivo debito pubblico, in grado di produrre molte cose di qualità ma incapace di risanare la propria finanza pubblica e modernizzare e snellire la propria mediocre pubblica amministrazione, all’origine, quest’ultima, di molti disservizi non solo al privato cittadino ma alle aziende, che quindi venivano e vengono tuttora penalizzate nella concorrenza internazionale. Mi voglio spingere oltre e sostenere che probabilmente la vera ragione delle difficoltà dell’Italia è stata quella di trattare il paese come fosse davvero un monolito, e non invece spaccato almeno in due, se non in tre parti, con tutte le conseguenze che se ne sarebbero dovute trarre da un punto di vista politico, culturale, fiscale e giudiziario da decenni. 
Rimango insomma dell’idea che il modello britannico, con quattro nazioni che formano un unico stato possa essere motivo ispiratore per l’Italia, che invece si ostina a negare di fatto le diversità, e spinge verso un accentramento che denota diffidenza verso la tenuta del paese, che si teme capace di spaccarsi in qualsiasi momento, anche considerata la fatica per unificarlo (a parte l’impresa di Garibaldi, voglio dire, che pur rapidissima fu però solo una parte e una tappa per quanto importante di tale unificazione).
Detto questo, l’Italia è stata a lungo una delle cinque principali economie del mondo, e produceva un quinto del pil statunitense sino agli anni Novanta, come un quinto – o poco più – era la sua popolazione. Tutto tornava quindi, anche considerato che gli statunitensi avevano vinto la Seconda Guerra Mondiale con tutti i vantaggi del caso, e avevano (e hanno tuttora, naturalmente) un territorio enormemente più vasto e con  molte più risorse di quello della Penisola, e quindi avrebbero potuto anche essere superiori all’Italia a parità di popolazione, cosa che invece non era. L’Italia aveva saputo svilupparsi e difendersi bene nella concorrenza con la prima potenza economica mondiale; poi, però, il declino. 
Proprio quando inizia a crollare il sistema politico tradizionale, dei partiti storici, proprio allora inizia la lenta ma inesorabile regressione economica del paese. Si tratta di una concomitanza temporale, in cui alcuni hanno voluto vedere un nesso di causa ed effetto. Io non sono in grado di dire se un’ipotesi del genere sia fondata. Posso solo notare con raccapriccio che nel frattempo gli Stati Uniti hanno doppiato la differenza di cui parlavo: non hanno più, cioè, “solo” cinque volte il pil italiano, bensì, e abbondantemente, dieci (mentre non hanno decuplicato la loro popolazione rispetto alla nostra)! Nel frattempo ci ha surclassato anche la Francia, e pure il Regno Unito, paesi che eravamo stati in grado di tenere a bada per lungo tempo.
Qui, insomma, c’è bisogno di un cambio di passo. Non so quanto i politici italiani attuali guardino alla crescita del pil quando sviluppano le loro politiche economiche, quanto esse, cioè, siano solo una conseguenza diretta dello sviluppo del mercato del lavoro, che è sempre in cima ai pensieri di chiunque voglia vincere le elezioni, e se lo sviluppo di un simile mercato vada sempre d’accordo con quello del pil. Ripeto, non lo so, non sono un economista di professione. Certo è che rimanere nel gruppo dei paesi più sviluppati al mondo fa bene alla nostra nazione per una questione reale e di immagine, e sarebbe un peccato che un giorno qualcuno ci dicesse che anche la Spagna, il Canada, l’Australia e il Messico ci hanno superato e che quindi “grazie per la partecipazione ma la porta dell’uscita è in fondo a destra”, non siamo più all’altezza di stare nel G7 (e se ci stiamo ancora probabilmente è solo perché esistono equilibri che gli Usa in primis non vogliono toccare – e dopotutto ai loro occhi di vera superpotenza Italia, Francia  e Regno Unito sono ancora paesi di stazza economica e demografica simile, e quindi è inutile stare a fare troppi distinguo, o figli e figliastri -).
Non sono uno sciocco nazionalista ma una persona sentimentalmente attaccata all’Italia sì: vorrei che qualcuno pensasse alla sua crescita reale e alla sua capacità di rimanere nel mercato globale come competitor di vaglia. Vorrei che qualcuno facesse le fantomatiche riforme necessarie per attirare gli investimenti, che aiutasse le nostre aziende a competere ad armi pari con quelle straniere (innanzitutto in patria), aiutarle dico e non addirittura crearle dal nulla come pure – mi assicurano – sarebbe possibile con strategie di ampio respiro ispiratrici di un secondo miracolo economico simile a quello che altrove (in Asia ad esempio) si sta attuando in questa fase storica (e non 50 anni fa, a dimostrazione che i miracoli economici sono ancora possibili), e vorrei, infine, che qualcuno formasse connazionali che non si aspettino il posto di lavoro (come spesso chiedono a vanvera i sindacati), ma che il lavoro se lo creino, anche considerato quanti pochi siano oggi gli italiani che lavorano rispetto alla popolazione (23 milioni su circa 60, molti meno in proporzione dei francesi o dei britannici, che sono un po’ più di noi!), il che potrebbe rappresentare (anzi, ne sono certo) uno dei motivi della decrescita del nostro pil rispetto ai concorrenti, assieme a quella demografica. 
Vorrei tutte queste cose ma, nonostante tutto, non mi sembra di chiedere troppo. 

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