
Sono stati condannati a vita due dei tre responsabili della morte di un ragazzo afroamericano, ucciso per strada pochi giorni fa, mentre faceva jogging.
Forse i tre, tra i quali un padre e un figlio, rimpiangendo i bei tempi andati, quando si poteva linciare un ragazzo di colore senza alcun motivo, hanno pensato bene di riportare indietro le lancette della storia, e intercettato uno di loro per la strada hanno preteso da lui la stessa sudditanza psicologica, la stessa mentalità da servo che si aspettavano solo per via del colore della pelle.
Del resto gli Stati Uniti sono ben lontani dall’aver debellato la piaga del razzismo, almeno a livello culturale.
Si pensi al maltrattamento delle persone di colore nelle caserme, nei tribunali e nelle carceri. Si pensi ai comportamenti di tanti poliziotti che sulla base dei loro pregiudizi decidono spesso, troppo spesso, della vita e della morte di persone non bianche. Si pensi alla mentalità ancora contaminata da elementi di sapore razzista degli inquilini stessi della Casa bianca, dove non solo un Trump è sembrato, a tratti, mettere sullo stesso piano partecipanti di colore e membri del klu klux klan durante manifestazioni contro la violenza della polizia, ma anche un Biden ha espresso pregiudizi propri della gente della sua generazione, anche quando armata di buona volontà come lui innegabilmente è, parlando alle persone di colore; infatti, si è rivolto a loro come se appartenessero ad un gruppo a parte della società, sdoganando così, quindi, il pregiudizio a monte di qualsiasi altra considerazione, pregiudizio che tocca lui come anche, occorre aggiungere amaramente, molta gente (cosiddetta) di colore stessa (perché spesso i primi nemici delle persone di colore sono, ahimé, loro stesse).
Un Trump di nuovo alla Casa bianca, del resto, potrebbe riportare indietro davvero le lancette della storia, al di là delle ipotesi di dittatura che alcuni studiosi stanno sviluppando con un suo ritorno al potere nel 2024, complice il disastro, alias tentativo di colpo di stato che lui si è ben guardato dal fermare sino a quando ha potuto (ossia rischiando poco), di Capitol hill.
Si pensi alla mentalità di molti politici: emblematica in tal senso la frase rivolta da un deputato repubblicano ad Obama durante un suo discorso al Congresso statunitense nel 2009, ossia “You lie!” (“Tu menti!”), che i bianchi razzisti rivolgevano spesso agli schiavi di colore, ma si pensi anche a quella dei poliziotti, dove uno di loro, l’ormai celebre Derek Chauvin, immortalato da un video, ha deciso della vita di un’altra persona (di colore), vittima, io credo della stupidità dell’agente prima ancora che della sua cattiveria o del suo machismo. Mi chiedo se nella polizia degli Stati Uniti i candidati vengano sottoposti a dei test psicoattitudinali, e, in caso positivo, se non sia il caso di alzare un pochino l’asticella, se il risultato è un tipo come Chauvin, che in virtù della sua (semi)demenza in primis ha ucciso un uomo.
Del resto è difficile liberarsi del proprio passato.
La società americana si stupì quando, nella prima metà del Novecento, un padre siciliano immigrato squartò con un coltellaccio un adolescente del luogo che dopo aver sverginato la figlia si era rifiutato di sposarla. Un fatto non proprio edificante, che non aiutò a combattere la fama di “dago” degli italiani del tempo, almeno quelli del Sud Italia già oggetto di razzismo, innanzitutto da parte di quelli del Nord, a partire dai friulani e dai veneti, arrivati prima dei nostri meridionali negli Usa nella seconda metà dell’Ottocento.
In realtà, avrebbe fatto ancor meglio a stupirsi, la società americana, di quanto fosse primitiva essa stessa, quella razzista di origine anglosassone voglio dire, quando permetteva a un bianco di sverginare tutte le ragazzine di colore della sua tenuta, mentre lo stesso ovviamente non era concesso alle sorelle coi giovani schiavi neri, per non parlare dei modi, anche barbarici, bestiali, con cui il marito poteva punire l’infedeltà della moglie con un “negro”.
Uccidendo lei (non legalmente, immagino) e facendo lo stesso con lui, anche nella maniera più atroce (in tal caso legalmente).
In “Mandingo” di Kyle Onstott, romanzo mai abbastanza segnalato in Italia non tanto per le sue qualità letterarie quante per quelle di documento realistico sulla schiavitù americana, il protagonista, il giovanissimo marito tradito dalla moglie che lo voleva punire per le sue continue infedeltà con una attraente “mulatta”, avvelenò di nascosto la consorte e uccise cuocendolo vivo lo schiavo, che era un bellissimo atleta, che si prestò, pur recalcitrante, a farle da amante. Infatti, il ragazzo di colore non avrebbe potuto comportarsi diversamente: dicendo di no, come all’inizio, ripeto, avrebbe voluto fare, sarebbe incorso nella facile vendetta della donna, mentre accusandola sarebbe incorso anche in quella del coniuge, che non gli avrebbe mai creduto; perché la questione dello schiavismo era innanzitutto una questione culturale, di mentalità generale: un bianco, anche giovane come il marito di cui sto parlando, non avrebbe mai concepito che a sua moglie, bianca come lui, potesse piacere un “negro”, per quanto bello e atletico, ossia un animale.
I “negri”, infatti, non erano considerati esseri umani negli Stati Uniti d’America razzisti. I nazisti consideravano alcune “razze”, chiamiamole così, “sub umane”. I civilissimi americani, per lungo tempo, più semplicemente, e drasticamente, non umane.
Questo per inquadrare meglio una questione più complessa di quanto solitamente si pensi. Quale? Quella di un popolo, l’americano, che durante la Seconda guerra mondiale sarebbe venuto in Europa a portare con la libertà la lotta ad un sistema razzista intollerabile, quello di Hitler: razzista, sì, ma condannabile non per tale motivo agli occhi degli statunitensi difensori dell’apartheid, ma solo perché lo era nei confronti – mi si passi la constatazione cinica – delle “razze” sbagliate.
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